Ieri , il presidente Napolitano, nellasua nota, ha voluto ricordare il giudice Rocchi Chinnici: capo
dell'ufficio istruzione, ucciso da un'autobomba il 29 luglio 1983.
"Il primato della legalità, per il quale magistrati come Rocco Chinnici hanno perso la vita, resta patrimonio collettivo e baluardo essenziale per una convivenza civile libera dal ricatto della criminalità organizzata".
Ma quelle parole
raccontano poco del valore e del lavoro di quel giudice capace e
ostinato nella sua idea di giustizia (e di lotta alla mafia).
Non
rendono conto anche del clima che si respirava a Palermo in quei giorni, in quei mesi, negli uffici
della polizia e nel Tribunale. Il senso di sgomento e di impotenza,
per questa lotta impari dello stato contro la mafia: impari, perché
(e le successive parole lo testimoniano) di fronte al potere delle
cosche, non tutto le istituzioni hanno fatto il loro dovere.
Il giornale “L'Ora”,
il 4 agosto riporta lo sfogo di un agente della Mobile:
«ma lo sa che la sera della morte di Chinnici, è dovuto intervenire il procuratore della Repubblica per bloccare, almeno per un giorno, la festa patronale del Capo [quartiere popolare di Palermo, N.d.A.], dietro al palazzo di Giustizia?»Testimonianza anonima di un agente della Mobile di Palermo rilasciata all'Ora, dopo la morte del giudice Chinnici, il 4 agosto.
Per capire chi era
Chinnici l'inventore del pool antimafia, l'ideatore del terzo livello
(la cupola), colui che subentrò all'ufficio istruzione dopo
l'omicidio di Cesare Terranova, occorre rileggersi le sue
parole:
Milano, 2 luglio 1983, relazione sulla criminalità organizzata di fronte ai componenti della commissione incaricata per studiare il fenomeno mafioso nell'hinterland milanese.
«Il sessanta o il settanta per cento dei fondi erogati dalla regione siciliana alle aziende agricole finiscono a famiglie direttamente o indirettamente legate alla mafia ..» Un caso limitato all'agricoltura? No. «La pubblica amministrazione» proseguiva Chinnici «è talmente permeata di mafia, le istituzioni sono talmente permeate di mafia per cui sembra veramente difficile poter arrivare da un anno all'altro alla soluzione del problema (…) Oggi non c'è opera pubblica in Sicilia che non costi quattro o cinque vole quello che era stato il costo preventivo non già per la lievitazione dei prezzi ma perché così vuole l'impresa mafiosa , impresa alla quale è spesso interessato anche un “colletto bianco”». Un quadro desolante , un bubbone che finalmente, grazie alla legge La Torre, era possibile tentare di incidere. «In Sicilia» aggiungeva il giudice istruttore «abbiamo scoperto imprese mafiose solo dopo l'approvazione della legge La Torre, dopo indagini della Guardia di Finanza, ma quelle imprese erano gestitre da persone neanche sfiorate dal sospetto della mafia». E, per semplificare , di fronte al pubblico milanese, il consigliere istruttore fece quest'esempio illuminante: «Abbiamo saputo recentemente» disse «che un grosso personaggio della mafia di oggi è un costruttore edile che ha innalzato vent'otto palazzi a Palermo, per migliaia di appartamenti: nel 1974 era uno dei facchini della stazione centrale ..».
Certe cose a Palermo non bisogna dirle. Anzi è consigliabile, per essere «apprezzati», negarle smentirle. Invece Chinnici andava a ruota libera, pensava ad alta voce. E pensava anche – dimostrando in questo un'incoscienza senza pari – che il terzo livello esiste, e che senza il terzo livello la mafia che spara, che fa le stragi, che taglieggia popolazioni intere, non avrebbe motivo d'esistere. Spiegò pochi giorni prima della sua morte: «c'è la mafia che spara; la mafia che traffica in droga e ricicla soldi sporchi; e c'è l'alta finanza legata al potere politico (..) Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più elevati». Se l'avessero lasciato fare avrebbe certamente raggiunto l'obiettivo.
Milano, 2 luglio 1983, relazione sulla criminalità organizzata di fronte ai componenti della commissione incaricata per studiare il fenomeno mafioso nell'hinterland milanese.
«Il sessanta o il settanta per cento dei fondi erogati dalla regione siciliana alle aziende agricole finiscono a famiglie direttamente o indirettamente legate alla mafia ..» Un caso limitato all'agricoltura? No. «La pubblica amministrazione» proseguiva Chinnici «è talmente permeata di mafia, le istituzioni sono talmente permeate di mafia per cui sembra veramente difficile poter arrivare da un anno all'altro alla soluzione del problema (…) Oggi non c'è opera pubblica in Sicilia che non costi quattro o cinque vole quello che era stato il costo preventivo non già per la lievitazione dei prezzi ma perché così vuole l'impresa mafiosa , impresa alla quale è spesso interessato anche un “colletto bianco”». Un quadro desolante , un bubbone che finalmente, grazie alla legge La Torre, era possibile tentare di incidere. «In Sicilia» aggiungeva il giudice istruttore «abbiamo scoperto imprese mafiose solo dopo l'approvazione della legge La Torre, dopo indagini della Guardia di Finanza, ma quelle imprese erano gestitre da persone neanche sfiorate dal sospetto della mafia». E, per semplificare , di fronte al pubblico milanese, il consigliere istruttore fece quest'esempio illuminante: «Abbiamo saputo recentemente» disse «che un grosso personaggio della mafia di oggi è un costruttore edile che ha innalzato vent'otto palazzi a Palermo, per migliaia di appartamenti: nel 1974 era uno dei facchini della stazione centrale ..».
Certe cose a Palermo non bisogna dirle. Anzi è consigliabile, per essere «apprezzati», negarle smentirle. Invece Chinnici andava a ruota libera, pensava ad alta voce. E pensava anche – dimostrando in questo un'incoscienza senza pari – che il terzo livello esiste, e che senza il terzo livello la mafia che spara, che fa le stragi, che taglieggia popolazioni intere, non avrebbe motivo d'esistere. Spiegò pochi giorni prima della sua morte: «c'è la mafia che spara; la mafia che traffica in droga e ricicla soldi sporchi; e c'è l'alta finanza legata al potere politico (..) Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più elevati». Se l'avessero lasciato fare avrebbe certamente raggiunto l'obiettivo.
Tratto da Venticinque annidi mafia - Saverio Lodato: capitolo “Beirut? Belfast? No,
Palermo”. Pagine 133-134
Si riferiva ai cugini
Salvo, esattori per lo stato dei tributi, nonché uomini d'onore,
vicini alla Dc.
Servì l'omicidio del prefetto Dalla Chiesa e del segretario regionale Pio La Torre afifnchè lo stato approvasse la legge La Torre, citata dal giudice Chinnici nella sua relazione.
Dopo la sua morte, venne fuori anche la storia del libanese, Ghassan: intermediario di armi e morfina, tirato in ballo dalle intercettazioni di due mafiosi della famiglia dei Greco, in contatto con lui, intercettati per l'indagine sulla morte del prefetto Dalla Chiesa. Ghassan aveva anche ottimi agganci con il centro nazionale della Criminalpol, con il servizio centrale antidroga del ministero degli interni e con la guardia di finanza.
Ghassan anticipò alla polizia palermitana l'attentato con una telefonata l'attentanto, facendo i nomi del commissario De Francesco e del giudice Falcone. Nessuno sospettò che anche Chinnici potesse essere uno degli obiettivi.
Altra sorpresa fu la scoperta dei suoi diari, pubblicati da l'Espresso nell'agosto 1983.
Diari in cui Chinnici annotava alcuni fatti straordinari del suo lavoro: come le pressioni ricevute dall'ex procuratore capo di Palermo, Pizzillo «Ma cosa credete di fare all'ufficio istruzione? La devi smettere Chinnici di fare indagini nelle banche, così rovini tutta l'economia siciliana .. ». O anche «A quel Falcone, caricalo di processi, così farà come ogni giudice istruttore: non farà più niente».
Infine quest'ultima annotazione: «Pochi mesi prima di essre ucciso, Mattarella fece un viaggio a Roma con due funzionari della regione per incontrarsi col ministro dell'interno [Rognoni]. Al ritorno a Palermo Mattarella confida ai due funzionari: “Se qui si sapesse cosa ho detto al ministro mi ammazzerebbero”». L'episodio era stato riferito a Chinnici proprio dai due funzionari, ma questo, seppur presente in un rapporto di polizia giudiziaria, era sparito dai dossier successivi all'uccisione del noto uomo politico siciliano.
Servì l'omicidio del prefetto Dalla Chiesa e del segretario regionale Pio La Torre afifnchè lo stato approvasse la legge La Torre, citata dal giudice Chinnici nella sua relazione.
Dopo la sua morte, venne fuori anche la storia del libanese, Ghassan: intermediario di armi e morfina, tirato in ballo dalle intercettazioni di due mafiosi della famiglia dei Greco, in contatto con lui, intercettati per l'indagine sulla morte del prefetto Dalla Chiesa. Ghassan aveva anche ottimi agganci con il centro nazionale della Criminalpol, con il servizio centrale antidroga del ministero degli interni e con la guardia di finanza.
Ghassan anticipò alla polizia palermitana l'attentato con una telefonata l'attentanto, facendo i nomi del commissario De Francesco e del giudice Falcone. Nessuno sospettò che anche Chinnici potesse essere uno degli obiettivi.
Altra sorpresa fu la scoperta dei suoi diari, pubblicati da l'Espresso nell'agosto 1983.
Diari in cui Chinnici annotava alcuni fatti straordinari del suo lavoro: come le pressioni ricevute dall'ex procuratore capo di Palermo, Pizzillo «Ma cosa credete di fare all'ufficio istruzione? La devi smettere Chinnici di fare indagini nelle banche, così rovini tutta l'economia siciliana .. ». O anche «A quel Falcone, caricalo di processi, così farà come ogni giudice istruttore: non farà più niente».
Infine quest'ultima annotazione: «Pochi mesi prima di essre ucciso, Mattarella fece un viaggio a Roma con due funzionari della regione per incontrarsi col ministro dell'interno [Rognoni]. Al ritorno a Palermo Mattarella confida ai due funzionari: “Se qui si sapesse cosa ho detto al ministro mi ammazzerebbero”». L'episodio era stato riferito a Chinnici proprio dai due funzionari, ma questo, seppur presente in un rapporto di polizia giudiziaria, era sparito dai dossier successivi all'uccisione del noto uomo politico siciliano.
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