02 febbraio 2015

Il moroteo a Palazzo D'orleans

Piersanti Mattarella
Non mi piacciono i giornali e i giornalisti che fanno “macchina del fango”. Ma nemmeno sopporto quei giornali e giornalisti che santificano subito, sin dal primo giorno, il politico che ascende al rango di potente di turno.
Rileggendo i titoli degli articoli usciti in questi giorni, sulla sobrietà e compostezza dell'uomo, nonché neo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, mi tornano in mente le stesse frasi lette su Monti.
Non c'è il loden ma c'è la panda e l'abito grigio.
Aspettiamo i primi atti del suo mandato e poi giudicheremo (sebbene l'invito a B. non sia indice di cambiamento).
Un'altra cosa non mi fa piacere: la biografia monca della sua famiglia. Il fratello Antonino assente dalle cronache (non a nulla a che vedere con la vita del presidente, ma rimane una notizia).
E il fratello Piersanti, di cui tutti ripetono “ucciso dalla mafia”, senza raccontare cosa era la mafia siciliana degli anni 70-80 e cosa la DC siciliana. Quella di Salvo Lima, Vito Ciancimino e di Bernardo Mattarella, il padre.
Piersanti aveva la volontà di recidere quel legame e forse per questo fu ucciso.
Altra amnesia collettiva dei nostri giornalisti, l'incontro successivo l'omicidio tra Andreotti e Bontade:
La commissione di Cosa Nostra, presieduta da Michele Greco, decise l’omicidio dell’on. democristiano che venne materialmente eseguito, secondo quanto rivelato dal Bontade al Mannoia, da Salvatore Federico, Francesco Davì, Antonino Rotolo, Santino Inzerillo ed altri.
Nicoletti non resse al rimorso e si uccise.
Andreotti, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza, non si limitò “a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi e ad allontanarsi dagli stessi”, ma scese in Sicilia “per chiedere al Bontade conto della scelta di sopprimere il Presidente della Regione” nell’intento “di verificare, sia pure attraverso un duro chiarimento, la possibilità di recuperare il controllo sulla azione dei mafiosi riportandola entro i tradizionali canali di rispetto per la istituzione pubblica e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi, nel quadro della aspirazione alla continuità delle stesse”.
A quel secondo incontro Francesco Marino Mannoia fu presente.
«Deve venire l’onorevole Andreotti – aveva spiegato il Bontade a lui e a Salvatore Federico – e bisogna stare, dovete stare molto attenti al cancello, ed eventualmente, chiunque si presenti di altri uomini d’onore, dite di ritornare più tardi, perché non dovete fare entrare a nessuno».
Giunti a destinazione i tre trovarono Salvatore Inzerillo, Michelangelo La Barbera, Girolamo Teresi e forse Santo Inzerillo, Salvo Lima e Giuseppe Albanese, cognato di Giovanni Bontate. Con i quali attesero per circa un’ora. Quando udirono il suono di un clacson si precipitarono ad aprire il cancello e videro entrare un’Alfa Romeo blindata di colore scuro, con i vetri scuri, a bordo della quale si trovavano ambedue i cugini Salvo e l’on. Andreotti.
Al seguito vi erano altre quattro o cinque autovetture.
Una volta sceso dall’auto, Giulio Andreotti si guardò intorno per poi entrare subito all’interno della villa, come del resto lo invitavano a fare Stefano Bontate e gli altri. All’esterno, a controllare il cancello, rimasero il Marino Mannoia, il Federico e il La Barbera. «Durante questa… questa attesa – racconta il Mannoia – sentimmo chiaramente la voce alterata, diciamo, grida quasi, di Stefano Bontade, che non era nel suo stile, nel suo… nel suo modo di dare, abbiamo sentito queste grida dal Bontade».
Al termine dell’incontro, durato circa tre quarti d’ora o un’ora, Andreotti si allontanò con i cugini Salvo a bordo dell’autovettura blindata, mentre gli altri rimasero nella villa: Bontate, Inzerillo, Albanese, Lima e Teresi si soffermarono ancora un po’ a discutere tra loro, appartati.
Poi uscirono e il Mannoia rincasò insieme al Federico e al Bontate. Quest’ultimo gli raccontò che Andreotti era venuto per avere dei chiarimenti sull’omicidio di Mattarella. E che egli stesso gli aveva risposto che «in Sicilia comandiamo noi, e se non volete cancellare completamente la Dc dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare soltanto sui voti del nord, dove votano tutti comunista, accettatevi questi». Aveva poi diffidato l’on. Andreotti dall’adottare interventi o leggi speciali, poiché altrimenti si sarebbero verificati altri fatti gravissimi.
In seguito all’assassinio, l’on. Franco Evangelisti chiese a Lima che cosa pensasse della cosa.
«Egli mi rispose con questa sola frase: quando si fanno dei patti vanno mantenuti».
Questo il ritratto che fa Saverio Lodato, autore del saggio “Quarant'anni di mafia” BUR , di Piersanti Mattarella, il moroteo di Palazzo D'Orleans:
Piersanti Mattarella si era liberato presto dal fardello di un'eredità difficile. Nato a Castellammare del Golfo il 24 maggio 1935, venne considerato all'inizio della sua giovane carriera politica il rampollo che avrebbe preso il posto del padre Bernardo, il potente democristiano – deceduto nel 1971 – che per una ventina d'anni era stato ministro di tutti i governi della Repubblica.
Ma fin dagli esordi Piersanti preferì frequentare la biblioteca comunale e i circoli dell'associazione cattolica piuttosto che i comitati elettorali dove non era difficile imbattersi nei capimafia della provincia trapanese. A suo padre, che lo scrittore Danilo Dolci, siciliano d'adozione, aveva indicato nel 1965 alla commissione antimafia cone politico legato ai boss fin dal dopoguerra, Piersanti era legato esclusivamente da affetto filiale.
Certo, lo urtavano frasi del tipo: «Quel cognome non gli porterà nessun vantaggio», oppure sentirsi definire, quasi che lui ne fosse in qualche modo colpevole, «il figlio di Bernardo».
Dovette fare i conti con questo scomodo retaggio già nel 1961, quando diventò per la prima volta consigliere comunale a Palermo nel vivo di durissime polemiche. Ottima preparazione giuridica, esperto di diritto civile, una materia che insegnò per un lungo periodo all'università, Piersanti Mattarella dimostrò in fretta la sua natura di cavallo di razza. Nel 1971, ancora una volta eletto deputato, fu nominato assessore al bilancio. Anni che videro la regione siciliana travolta da una catena di scandali mentre risultavano sempre di più, anche per esplicito riconoscimento dei partiti d'opposizione, le doti di quest'amministratore giovane e serio pervaso dalla volontà di svecchiare le strutture più compromesse del suo partito.
Piersanti Mattarella non volle mai mettersi in lista nel collegio elettorale di Castellammare, sebbene avrebbe potuto contare su un'elezione automatica e plebiscitaria. Partecipare al comizio di chiusura della campagna elettorale: ecco l'unica concessione che era disposto a fare aio democristiani castellamaresi.

Scrisse su «L'Ora» (il 9 gennaio 1980) il giornalista Marcello Cimino: «Era per lui come un debito che voleva pagare a una tradizione dalla quale poi non traeva alcun vantaggio diretto. Anzi. Dalla tradizione clientelare, paternalistica e ministeriale del partito democristiano, quale andò crescendo in Sicilia dopo il 1948 sempre più abbarbicato al potere, Piersanti Mattarella si tenne sempre discosto.. ».
E' un ritratto esatto. Rigoroso ma di ampie vedute Mattarella – diventato presidente della regione Sicilia nel 1978 – si distinse immediatamente nello sforzo di moralizzazione. Decise, accogliendo la denuncia dell'opposizione comunista, di andare a spulciare le mille pratiche per concessione di finanziamenti dell'assessore ai lavori pubblici Rosario Cardillo il quale, a conclusione di quell'inchiesta, si dimise: venne accertato infatti che sborsava miliardi sempre alle stesse imprese, agli stessi personaggi, qualche volta anche in odor di mafia.
Il giorno dell'Epifania del 1980, Piersanti Mattarella venne assassinato. Stava uscendo di casa per andare a messa. Era con moglie e figli. Niente scorta, che sistematicamente rifiutava nei giorni festivi. Un killer li seguì con calma. Appena il presidente della regione si mise alla guida della sua 132, il killer si avvicinò al finestrino e iniziò a far fuoco. Irma chiazzese, la moglie di Piersanti, lo vide e lo supplicò di non sparare. Parole inutili. L'esponente della Dc venne trasportato in ospedale ancora vivo. Morì sotto lo sguardo sgomento di Sergio, il fratello, che era accorso subito avendo udito le prime detonazioni. Identikit e supposizioni. Polemiche per la mancata vigilanza sotto l'abitazione del capo del governo siciliano. Profonda costernazione popolare. È morto come Aldo Moro, dicevano tutti.

Quarant'anni di mafia, di Saverio Lodato – Un moroteo a Palazzo D'Orleans


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