Il quarantennale della morte del
presidente della DC Aldo
Moro (e
della strage della sua scorta) dovrebbe essere di spunto per una
riflessione profonda su terrorismo, sull'impatto del rapimento dello
statista sulla politica italiana, sulla reazione dello Stato
all'allarme terrorismo.
Rischiamo, anche a questo anniversario,
di fermarci ad una verità di comodo (la ferma reazione dello Stato,
il terrorismo battuto senza leggi speciali) che non serve per una
vera conoscenza del nostro passato: sappiamo bene quanto questa
conoscenza sia preziosa per non ripeterne gli errori.
In tanti, giornalisti e storici, hanno
cercato di dare il loro contributo, alla memoria di Moro: Ezio Mauro
e il suo film documentario, Andrea Purgatori e il suo speciale di
Atlantide.
Dovremmo cercare di andare oltre le
frasi di circostanza, per ricordare chi era Aldo Moro e quale fosse
la sua importanza dentro la DC e dentro la politica italiana.
Ricordare cosa sia stato, in Italia, il
terrorismo, in particolare il terrorismo rosso delle BR e
della galassia del partito armato: la genesi, il culmine con
l'attacco al cuore dello Stato (il rapimento di Moro, appunto), e la
parabola discendente.
Ma occorre anche inquadrare questa
storia nel contesto italiano e globale in cui è avvenuta: la Guerra
Fredda, la strategia della tensione, il tentativo di Moro di
avvicinare il PCI di Berlinguer (sempre più distante da
Mosca) all'area di governo, per stemperare quelle tensioni che Moro
aveva visto, all'indomani della bomba scoppiata nella Banca
dell'Agricoltura a Milano il 12 dicembre 1969.
La strage di Piazza Fontana.
Infine, l'ultimo aspetto, non meno
importante: come è cambiata la politica italiana, dopo la morte
di Moro.
La Prima Repubblica, quella nata dalla
Costituente e che aveva visto la DC sempre al governo, per gli
accordi di Jalta, finì in via Caetani, nel maggio 1978.
Quando il cadavere di Moro fu fatto
ritrovare dentro una Renault 4, in una strada a metà tra il palazzo
dove aveva sede il PCI e la sede della Democrazia Cristiana.
Un altro ragazzo, fu trovato cadavere
quel 9 maggio, anche lui voleva fare politica, ma in Sicilia e con un
partito completamente diverso.
Si chiamava Peppino
Impastato, quel giornalista strano che prendeva in giro la
mafia e il boss di Cinisi Tano Badalamenti.
Ma questa è un'altra storia.
Torniamo alla storia di Aldo Moro:
questa si può dividere in tre parti
- il contesto storico
- il rapimento e la prigionia
- la fine della storia: che fine hanno fatto i protagonisti
Gli accordi di Jalta, dopo la seconda guerra mondiale, aveva messo l'Italia sotto l'ombrello Atlantico: il compito di guidare i governi del nostro paese era stato affidato alla Democrazia Cristiana, a patto che tenesse fuori dal governo (e ne contenesse le avanzate) il Partito Comunista italiano.
Moro però, sapeva che non si poteva governare un paese tenendo fuori dai governi, dalla gestione del paese, un partito che raccoglieva milioni di elettori e che, dalla svolta di Salerno di Togliatti, non intendeva affatto rovesciare la democrazia e “fare come in Russia”.
Governare da soli (o peggio, con l'appoggio di partiti dichiaratamente di estrema destra come l'MSI nell'esperimento del governo Tambroni), iniziava ad essere un fardello troppo pesante: si doveva tener conto di tutti i cambiamenti in atto, delle rivendicazioni che stavano crescendo nel paese e che erano sfociate nel 1968 e nell'autunno caldo.
Il boom nel paese aveva reso il paese più moderno e più ricco, ma questa ricchezza iniziava ad essere distribuita in modo inuguale.
Gli studenti, gli operai, pezzi di società civile chiedevano un paese moderno, in cui venivano tolti i paletti tra le classi sociali: oltre alle rivendicazioni salariali, si chiedevano riforme progressiste nelle suole, nella magistratura, nelle università e perfino nella polizia (che era ancora un corpo militare).
Le nuove leve nelle fabbriche (tra cui troviamo Moretti alla Sit Siemens e Raffaele Fiore alla Breda, futuri brigatisti) non accettavano più lavori alienanti e basse paghe, nemmeno le condizioni in cui erano costretti a vivere questi terroni: si organizzano gruppi autonomi, fuori dai sindacati, che iniziano ad organizzare operazioni di sabotaggio, azioni di protesta fuori dalle regole, che i sindacati confederali non riuscivano a contenere né a comprendere.
“Il voto non paga, prendiamo il fucile” racconta nello speciale di Atlantide Raffaele Fiore: come ai tempi dei partigiani, l'odiato dirigente doveva temere la rappresaglia di queste gruppi, per ogni suo licenziamento.
Ma non era solo le fabbriche da svecchiare: l'intera ossatura del paese era ancora quella del regime fascista, in termini di Questori, Procuratori della Repubblica. Moro, dopo Piazza Fontana, aveva compreso come queste istanze di cambiamento avessero creato una contro reazione, di stampo opposto.
Qualcuno, nel suo stesso partito, nell'area ultra atlantica della politica italiana, voleva usare le formazioni neofasciste per creare terrore. Un terrore che doveva spostare il baricentro politico, normalizzare la situazione politica affinché nulla cambiasse.
Moro aveva già portato avanti un governo di centro sinistra col PSI di Nenni nei primi anni sessanta: governo naufragato anche per quel tintinnio di sciabole del “piano Solo”.
Non è dietrologia pensare che la nostra democrazia sia stata veramente a rischio negli anni sessanta-settanta: il presidente Segni aveva veramente chiesto al generale De Lorenzo un piano per arrestare sindacalisti e politici nel 1964 (Mimmo Franzinelli – Il piano solo).
Moro tenne per sé molte delle cose che aveva scoperto (gli anarchici infiltrati dai servizi) ma, negli anni successivi, iniziò un discorso politico di avvicinamento col PCI di Berlinguer.
Partito che, nelle elezioni del 1976, era arrivato a 4 punti dalla DC: ma anche Berlinguer aveva capito come la via per il governo non potesse arrivare senza un accordo con la Democrazia Cristiana.
I due grandi partiti di massa sarebbero arrivati ad un compromesso storico, per un governo di non astensione del PCI.
Nonostante le minacce da Washington, non ultima quella di Kissinger, qualche anno prima:
«La avverto», aveva tagliato corto Kissinger, le mani piantate sul tavolo. «Se non cambia la sua linea politica, la pagherà molto cara.»Strani eroi – Alessandro Bongiorni
Quella mattina del 16 marzo 1978, Aldo Moro assieme alla sua scorta (Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino) stava andando alla Camera per votare la fiducia al governo Andreotti, il primo dal 1947 (dalla strage di Portella della Ginestra, dal viaggio di De Gasperi in America) col sostegno dei comunisti.
Le BR non erano le sole forze intenzionate a far abortire questo progetto.
Dopo i dirigenti delle fabbriche, i sindacalisti “gialli”, i magistrati, la direzione strategica delle Brigate Rosse aveva deciso di alzare il tiro: colpire lo Stato al cuore, pensando che questo scatenasse una volta per tutte le masse, verso una rivoluzione del proletariato.
Non solo Moro era tenuto di mira, fecero degli appostamenti anche su Andreotti: ma alla fine fu scelto il presidente DC, il «il meno implicato di tutti», come scrisse Sciascia ne “L'affaire Moro”.
Letture consigliate:
Il
golpe di via Fani, Giuseppe De Lutiis
Doveva
morire, Sandro Provvisionato Ferdinando Imposimato
Complici,
di Stefania Limiti e Sandro Provvisionato
L'Affaire
Moro, Leonardo Sciascia
Il
golpe inglese, di Mario Cereghino e Giovanni Fasanella
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