15 marzo 2018

Aldo Moro – la seconda parte: il rapimento e la prigionia


Aldo Moro, cosa rimane 40 anni dopo - prima parte

Esiste una verità giudiziaria, sul rapimento, la strage degli agenti (uccisi e poi finiti con un colpo alla nuca).
Ma è una verità, venuta fuori dopo anni di processi, che si basa sulle deposizioni delle stesse Brigate Rosse, in particolare di Mario Moretti (esponente dell'area dura, che arrivò ai vertici della struttura dopo la cattura di Franceschini e Curcio) e di Valerio Morucci.
Ma è una verità che fa acqua da tutte le parti, che non convince, che suona tanto come una verità buona perché fa comodo a tutti.

Poco prima delle 9 di mattina, la macchina di Moro, con Ricci e Leonardi, fu bloccata dalla 128 con targa diplomatica, guidata da Moretti, in via Fani, angolo con via Stresa.
E poi fu l'inferno:
Roma giovedì 16 marzo 1978. Sono da poco passate le 9:30 del mattino e in fondo a via Mario Fani, quasi all'altezza dell'incrocio con via Stresa, quartiere Monte Mario, c'è il cadavere di un poliziotto riverso a terra. Ha le braccia aperte, la pistola un po' più in là, mentre un rivolo di sangue scivola giù dal corpo e si disperde verso la fine della strada, seguendo la discesa. I piedi sovrapposti, un Cristo senza croce, l'emblema del martirio a cui è stato sottoposto. E' una delle immagini che i filmati televisivi rilanciano in poche ore nelle case degli italiani, uno dei simboli di una tragedia che, per orrore, modalità e significato, è destinata a scuotere la coscienza del Paese e a segnarne per sempre la storia. Un commando delle Brigate rosse, indossando divise da piloti dell'Alitalia, ha rapito il presidente della Democrazia Italiana, Aldo Moro, compiendo l'atto più clamoroso della sua parabola di sangue e violenza, quell'attacco al cuore dello Stato che farà tremare le istituzioni.[..]A terra sono rimaste cinque persone.[Divise forate, di Alessandro Placidi]

In pochi secondi (30? 60?) furono sparati più di cento colpi (92 i bossoli recuperati), tutti gli uomini della scorta furono uccisi senza riuscire ad opporre una reazione, eccetto Iozzino che riuscì ad uscire dall'auto per sparare qualche colpo, prima di essere colpito alle spalle (dunque situato alla destra delle auto), da un colpo di pistola.
Sappiamo che molti furono sparati da un'unica arma, sappiamo (così dicono Morucci e Moretti) che due mitra si incepparono.
Ma da quante persone era composto il commando (10 persone, secondo le BR)?
Chi sparò materialmente alla scorta? C'erano altre persone, esterne al gruppo quella mattina (e questo spiegherebbe il perché delle divise dell'aeronautica, servivano per riconoscersi tra di loro).
Chi erano i due motociclisti a bordo di una Honda blu, che spararono su un testimone (Antonio Marini) e che si dileguarono dietro le auto del commando che aveva appena prelevato Moro?

Nel libro “Complici – il patto segreto tra DC e BR”, i giornalisti Stefania Limiti e Sandro Provvisionato hanno ricostruito in modo minuzioso la dinamica dell'agguato evidenziando tutti gli aspetti che non tornano sul caso Moro: la mini Clubman Estate sul lato destro di via Fani, all'incrocio con via Stresa, di proprietà di una società del Sisde.
Come del Sisde erano diversi appartamenti nello stabile di via Gradoli, uno dei covi (e forse delle carceri) delle Br a Roma.
Non tornano i numero delle Br presenti all'agguato: 10, 12, 9 .. il numero dei presenti cambia col passare con gli anni e a seconda di chi parli. Il primo pentito delle Br Patrizio Peci, che parla de relato, mentre Valerio Morucci, presente in via Fani, nel suo memoriale (di comodo) lascia fuori la compagna Adriana Faranda.
Ma nessuno riesce a fugare i dubbi sui colpi sparati: come i proiettili prodotti dalla Fiocchi di Lecco. Come ne erano venuti in possesso le Br?
Proiettili che le perizie indicano di provenienza non militare, forse da un deposito Gladio?
Altro mistero: chi ha sparato in via Fani? Le Br (e chi ne avvallato le dichiarazioni) preferiscono giocare con la realtà: più di 90 proiettili sparati, in un minuto e mezzo. Ma forse i colpi sono stati anche di più, perché molti dei mitra avevano delle retine per recuperare i bossoli (e non lasciare tracce, perché?).
Le perizie balistiche dicono anche che metà dei colpi furono sparati da una sola arma.
Chi è il killer che spara a raffiche brevi? Morucci ha raccontato che il suo mitra e quello di Fiore (residuati bellici, tra l'altro) si erano inceppati, e che hanno perso diversi secondi per cercare di sbloccarli.
E, allora, chi ha sparato, da dove e con che ruolo, visto che le Br hanno sempre negato presenze esterne?
Altra discrepanza tra la realtà dei fatti e il loro racconto è lo sparatore da destra. A seconda di chi racconta, Moretti è rimasto in auto a fermare la 130 con Moro oppure è sceso a sparare.
Ma chi ha ucciso il maresciallo Leonardi (il capo della scorta) che, pur essendo esperto di tiro, non è riuscito a fare alcuna reazione?
Le perizie sui colpi, sui cadaveri, sulle testimonianze (che raccontano come, prima delle raffiche, si siano sentiti dei colpi di pistola) raccontano una diversa versione: la prima operazione del commando delle Br (da sole?) è l'eliminazione dell'elemento più pericoloso della scorta, Leonardi. Con quei colpi da destra, negati da Morucci e Moretti, ma resi certi dalle perizie. In seguito questa persona che ha sparato da destra, si sposta per evirare i colpi delle altre Br, che sterminano gli altri membri della scorta...
Questo sparatore non è mai stato individuato, come nemmeno il passeggero dell'Honda, quello con la faccia magra, come De Filippo.
Solo un ex brigatista, Raimondo Etro, ha parlato della moto: Etro non era in via Fani, ma dopo l'agguato ha ricevuto le armi in custodia da Alessio Casimirri il quale, mentre gliele consegnava, gli parlò di «due in moto» non previsti da altri brigatisti, che definì «due cretini».
Chi potrebbe far luce su queste due persone potrebbe essere proprio Casimirri, dunque, tutt'oggi latitante in Nicaragua, in una fuga che Etro sospetta che sia stata favorita dai servizi.

Paolo Biondani, nell'ultimo numero de l'Espresso (11-marzo-2018), racconta di una strana presenza in via Fani, quella mattina: in una foto compare un volto che ricorda molto da vicino il boss della ndrangheta Antonio Nirta. Una foto sparita e poi riapparsa, scoperta dai magistrati di Perugia che stavano indagando sull'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ucciso nel 1979 poco prima di aver scritto un articolo su OP, il suo settimanale, in cui ventilava scoop sulla morte di Moro.

Anche sulla gestione della prigionia di Moro, ci sono cose che non tornano.
Nel 1993 Moretti ha svelato la presenza di un quarto uomo in via Montalcini, il covo (oltre a lui, a Barbara Balzerani e Prospero Gallinari): si tratta di Germano Maccari, che fu arrestato e condannato a 30 anni. Perché viene smascherato dopo 15 anno dalla morte di Moro?

C'è il mistero delle strane presenze in via Fani: il colonnello dei carabinieri Guglielmi presente in via Fani per un pranzo. Colonnello dei carabinieri e del Sismi (che aveva lavorato con Maletti nell'ufficio D del Sid).
E anche il cognato di un addestratore della base Gladio di capo Marrargiu, Bruno Barbaro. Come è piccolo il mondo, specie in certe mattine a Roma.

Altri punti che non tornano: la gestione del sequestro (apparentemente senza nessuna strategia), in quel buco di via Montalcini. I due postini delle Br, Morucci e Faranda, che giravano indisturbati per una Roma blindata coi loro comunicati.
A leggere quello che raccontano gli autori emerge la pressapochezza delle Br nel preparare l'agguato (nessuna esercitazione prima, nemmeno con le armi), nel gestire il rapimento, nel concordare una linea con lo Stato e la DC poi.
Tutto lasciato un po' al caso, alla fortuna. O forse a delle coperture esterne che hanno reso il lavoro di Moretti e degli altri più semplice.
Altro che “geometrica potenza”.
A sentire le BR, perfino la data scelta per il rapimento, sarebbe stata un caso: dobbiamo e possiamo credere alla loro verità? A quello che hanno raccontato “de relato” per sentito dire o per semplice deduzione Patrizio Peci e Antonio Savasta (il responsabile del sequestro Dozier del 1981)? Oppure al memoriale (tardivo) dei dissociati (non pentiti) Valerio Morucci e Adriana Faranda?

Altri spunti dal libro “I complici”


La reazione dello Stato

Lo stesso Sandro Provvisionato, assieme all'ex giudice Ferdinando imposimato (che fu il giudice istruttore che seguì, tardivamente, le indagini), ha scritto un libro intitolato “Doveva morire”: In esso si demoliscono, punto per punto le false verità sulla risposta dello Stato all'attacco delle BR, ovvero che fu fatto tutto il possibile per salvare Moro, sacrificato in nome di una ragione di Stato, per salvare la democrazia e non cedere al ricatto dei brigatisti.

Tuttò ciò è falso, dicono gli autori: falso perché la polizia giudiziaria e la magistratura furono bloccate dal seguire piste, indizi, dal governo che, tramite il comitato di crisi e la procura Generale di Roma, bloccò per giorni preziosi le indagini.
Il covo in via Gradoli poteva essere trovato prima, come la tipografia in via Foà (da cui fu stampato il falso comunicato numero 7, ad opera del falsario Toni Chichiarelli, legato alla banda della Magliana): note del Sismi parlavano di un imminente sequestro importante e che in Italia si stavano radunando molti terroristi (della Raf e di quel misterioso gruppo chiamato Superclan o Hyperion).
Falso parlare di ragion di stato quando in realtà si registrò da parte del governo e delle forze dell'ordine (che rispondevano al Viminale e non alla magistratura) un immobilismo sconfortante: peggio ancora, si costruì con le Br, un muro contro muro: lo Stato non solo non accettò nessuna condizione (caso unico quello del rapimento Moro, se confrontato con il caso Sossi prima e quello Cirillo poi), ma nemmeno cercò di imbastire una finta trattativa per prendere tempo e scoprire il covo.
Come due laboriosi muratori (in inglese mason), Cossiga e Andreotti voltarono la faccia al compagno di partito: a partire dalle lettere di Moro, giudicate scritte da un Moro non più in possesso delle facoltà mentali. Bloccarono le iniziative della famiglia Moro (lasciata isolata), che cercava altre vie per una trattativa privata.
Si arrivò anche alla farsa del lago della Duchessa, nel giorno del ritrovamento del covo in via Gradoli, col falso comunicato numero sette. Un messaggio sottile alle Br: “sappiamo chi siete e dove siete. Fate quello che dovete fare e fatelo in fretta”.

Moro doveva morire – questa la tesi dei due autori: troppi gli interessi attorno alla sua morte, Moro stava parlando di Gladio (la struttura segreta militare legata alla strategia della tensione, di cui Cossiga e Andreotti erano a conoscenza), degli scandali interni alla Dc, dei finanziamenti dagli Stati Uniti.
Moro era un pretendente scomodo al Quirinale: alla presidenza arrivarono infatti prima Cossiga nel 1985 e poi sarebbe arrivato Andreotti, se non ci fosse stata la stagione delle stragi del 1992.

Il libro di Provvisionato e Imposinato non dà spazio alle Br superstiti, oggi quasi tutti liberi, per le loro giustificazioni, per tirare in ballo nuovamente i loro farneticanti ideali.
È una sorta di istruttoria per un processo che ancora deve avvenire, in cui si citano, assieme a nomi illustri (Cossiga, Andreotti, Gelli) anche nomi meno illustri: Steve Pieczenik che organizzo la manipolazione strategica che ha portato alla morte; Steve Ferracuti, i piduisti nei servizi segreti e negli apparati di polizia; esponenti di quei movimenti in contatto con le Br, come Pace e Piperno.
Nell'intervista finale, Eleonora Moro racconta:
Ora vedo che coloro che hanno ucciso Moro sono vivi. Non mi riferisco a quei poveretti che gli hanno sparato. Intendo gli altri, quelli che avendo in mano ... Ma non mi faccia parlare.Sono tutti conniventi. E lei stia attento perché quelli che non hanno indietreggiato di fronte al fatto di uccidere una persona che aveva loro spianato una carriera, sono capaci di fare qualunque cosa.”

Le lettere di Moro


Nel saggio, L'affaire Moro, lo scrittore Leonardo Sciascia, che fece parte della prima commissione di inchiesta su Moro, fa una sua analisi sulle lettere che il presidente scrisse durante i 55 giorni della prigionia, dalla "prigione del popolo": secondo Sciascia, se anche subirono un intervento censorio da parte delle Br, non furono scritte sotto dettatura.
Sono lettere in cui si ritrova lo stesso Moro politico, i suoi stessi valori caritatevoli che gli facevano chiedere al suo stesso partito, quel gesto di umanità per portare avanti una trattativa per liberarlo.
Furono queste lettere ad ucciderlo? Fin da subito, all'interno del suo partito e sui principali quotidiani, si iniziò a parlare di un Moro prima del rapimento e di un Moro dopo.
Le lettere spedite "non erano a lui ascrivibili".
La trattativa non poteva essere accettata, per un senso dello stato: scrive Sciascia che "né Moro né il partito da lui presieduto avevano mai avuto il 'senso dello Stato'".

Ecco che il Moro uomo si trasforma, in una sorta di "santificazione" fatta dai suoi stessi compagni, nel moro "statista": "Moro non era stato, fino al 16 marzo, un 'grande statista'. Era stato e continuò ad esserlo anche nella 'prigione del popolo' un grande politicante".
Moro statista e non uomo dunque, per rendere meno pesante ai compagni e all'opinione pubblica la scelta della linea della fermezza che avrebbe comportato la sua condanna a morte. In barba a quei valori cristiani che il partito intendeva rappresentare.

In una delle sue lettere Moro ricorda infatti ai suoi compagni di partito che non sarebbe stata la prima volta che lo Stato si piegava (in modo magari poco palese) ad una trattativa:
«non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti e anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione ..»

Non ci fu nulla da fare: se si esclude il partito socialista, il fronte della fermezza non mostrò cedimenti. In una delle ultime lettere scrive:
«Con queste tesi [la linea della fermezza] si avalla il peggiore rigore comunista ed a servizio dell'unicità del comunismo».

E ancora:
"...eccomi qui, sul punto di morire per aver detto di sì alla Dc. Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d'Italia..".

La condanna al suo partito: il mio sangue ricadrà su di loro.

"Mia carissima Noretta - scriveva Aldo Moro alla moglie - resta pure in questo momento la mia profonda amarezza personale. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro. Ma non è di questo che voglio parlare; ma di voi che amo e amerò sempre, della gratitudine che vi debbo, della gioia indicibile che mia avete dato nella vita...."

La morte di Aldo Moro e il ritrovamento del suo cadavere.

L'ultima perizia dei RIS sul cadavere del presidente DC (fatta per conto dell'ultima commissione di inchiesta e citata nell'ultimo numero de l'Espresso) afferma che Moro non fu sparato mentre era sdraiato nella Renault 4, come hanno detto i brigatisti, ma bensì mentre era seduto guardando in faccia il suo assassino.
Non è l'ultima anomalia sul delitto Moro: come avrebbe fatto la Renault 4 ad attraversare Roma, con un cadavere nel bagagliaio, da via Montalcini a via Caetani.
Pieno centro di Roma, passando attraverso i numero posti di blocco?

Il contesto internazionale

Nel saggio “Il golpe di via Fani”, lo storico nonché esperto di servizi Giuseppe De Lutiis, affronta la storia del rapimento Moro da un punto di vista più alto.
L'accordo PCI-DC non era ben visto dagli Stati Uniti ma nemmeno dalla Russia, poiché lo avrebbe considerato di effetti devastanti: avrebbe rafforzato il concetto di eurocomunismo, specie nei paesi dell'Europa orientale, come Ungheria e Cecoslovacchia, dove i tentativi di far evolvere il comunismo era stato represso dalla casa madre col sangue.

De Lutiis approfondisce la genesi e l'evoluzione del terrorismo italiano, rosso e nero e tutti i punti oscuri legati ad esso:
- le BR erano infiltrate sin dal 1973 (Silvano Girotto frate mitra); si arrivò all'arresto dei vertici Curcio e Franceschini (ma non Moretti), eppure questò non impedì il rigenerarsi delle BR.
Che dal 1974, sotto la conduzione di Moretti, passarono dai rapimenti e rapine, alle uccisioni o alle gambizzazioni.
- Il cambio della guardia: il 1974 segna anche il cambio della guardia sul fronte del terrorismo: se la prima metà era caratterizzata da quello nero (con ampi coinvolgimenti dei servizi, come dimostra il caso Giannettini agente del SID), la seconda metà è nel segno del terrorismo rosso.
Nonostante la decapitazione dei vertici operata con l'arresto di Curcio.

E' proprio il capo dell'ufficio D del SID, generale Maletti, ad aver detto "Ora non sentirete più parlare di terrorismo nero, ora sentirete parlare soltanto di quegli altri".
Cos'era la sua, una semplice premonizione o c'è qualcos'altro?

Un'allusione che i servizi avrebbero usato le BR e il partito armato per le sue trame?
Il libro di De Lutiis, più che concentrarsi sulle cronache dei 55 giorni del sequestro, segue tutte queste piste: dai rapporti delle BR con i servizi esteri (da quelli dell'est ai tentativi del Mossad); i legami con la scuola di lingue a Parigi, Hyperion, ritenuta da molti una sorta di centrale internazionale del terrorismo di sinistra. Con coperture da parte dei servizi francesi e americani.

Il peso della P2 durante il sequestro Moro

I servizi segreti, profondamente inquinati dalla P2, durante il sequestro Moro si caratterizzano per il più assoluto immobilismo. Il generale Santovito, all'epoca capo del sismi, interrogato a proposito da Tina Anselmi confermava di non aver fatto nulla "nulla, proprio nulla. Esattamente come gli altri Servizi" dello stato". Questa la lista dei piduisti ai vertici della sicurezza in quei giorni del 78:
- Giuseppe Santovito. Generale capo del sismi, tessera P2 n. 1630
- Pietro Musumeci. Colonnello, capo della segreteria di Santovito, direttore dell'ufficio controllo e sicurezza del Sismi. Tessera P2 n. 1604
- Sergio Di Donato. Colonnello, capo del potentissimo ufficio amministrativo del Sismi. Tessera P2 n. 1638.
- Mario Salacone. Maggiore, vice di Di Donato. Tessera P2 n. 1684
- Giulio Grassini. Generale, capo del Sisde. Tessera P2 n. 1620
- Vincenzo Rizzuti. Maggiore. Capo della divisione affari generali del Sisde. Tessera P2 n. 2098
- Corrado Terranova. Maggiore, vice capo centro del Sisde di Firenze. Tessera P2 n. 1657.
- Elio Cioppa. Vice Questore, capo di divisione del Sisde per il coordinamento dei centri dell'Italia centro-meridionale. Tessera P2 1890.
- Franco Ferracuti. Criminologo, membro del gruppo dei "consulenti personali" del ministro degli Interni Cossiga. Tessera P2 n. 2137.
- Giuseppe Siracusano. Generale, responsabile dei posti di blocco a Roma. Tessera P2 n. 1607
- Raffaele Giudice. Generale, comandante della Guardia di Finanza. Tessera P2 n. 1634
Walter Pelosi. Prefetto, diviene capo del Cesis durante il sequestro Moro.

Nel 1981 risultarono iscritti alla loggia 52 ufficiali dei carabinieri, 50 dell'esercito, 37 della Finanza, 29 della Marina. Ben 92 ricoprivano il grado di generale o di colonnello.
Tra gli iscritti anche un giovane industriale, Silvio Berlusconi, tessera n. 1816, codice E. 19.78, gruppo 17, fascicolo 0625. Di fronte alla domanda della Corte di Giustizia circa la sua iscrizione alla loggia, Berlusconi giurò il falso.

Letture consigliate:
Il golpe di via Fani, Giuseppe De Lutiis
Doveva morire, Sandro Provvisionato Ferdinando Imposimato
Complici, di Stefania Limiti e Sandro Provvisionato
L'Affaire Moro, Leonardo Sciascia
Il segreto, di Antonio Ferrari
Il golpe inglese, di Mario Cereghino e Giovanni Fasanella
Aldo Moro, cosa rimane 40 anni dopo - prima parte

1 commento:

occhio fino ha detto...

Moro fu prelevato da alcuni agenti di gladio presentatesi al capo scorta Leonardi al fine di tutelarlo da un immediato attentato. Tale prelievo avveniva all'insaputa del Presidente.Alla scorta con il Leonardi fu indicato il tragitto da seguire indicato anche dall'accompagnamento di una macchina "civetta" per fuorviare gli eventuali aggressori.La macchina civetta alle vicinanze dello stop di Via Fani anticipò la 130 e l'alfetta da cui uscirono gli assassini. La scorta e poi Moro furono assassinati perchè non raccontassero come era avvenuta la cessione del Presidente.