Anche a costo di mettere in crisi le casse del paese.
Report domenica tornerà sulla web tax e sul caso Amazon:
Amazon è la multinazionale del commercio on line. Ha 4 società in Italia, ma la capofila è lussemburghese e quindi le tasse sugli utili le paga in Lussemburgo, dove conviene perché sono circa al 4%. Eppure quando, due anni fa, eravamo riusciti a entrare con la telecamera nei magazzini di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, avevamo visto che quasi tutto il commercio italiano si fa in Italia: con circa 400 dipendenti assunti con contratti italiani, che prendono gli ordini e li spediscono in gran parte a clienti italiani.Domanda: siamo sicuri che così si difendono gli interessi del paese?
Adesso i dipendenti sono circa 900, perché quel magazzino è raddoppiato e hanno anche aperto un call center a Cagliari, con altri 200 dipendenti. Insomma, l’attività sarebbe in Italia ma Amazon non versa quasi nulla alla nostra Agenzia delle Entrate, se non le tasse sulla minima percentuale che il Lussemburgo paga alle società italiane. Perché, dicono, qui hanno solo dei depositi di merci e i lavoratori fanno solo dei servizi per la lussemburghese.
Da due anni la Guardia di Finanza indaga per capire se invece Amazon ha una sede d’affari fissa in Italia e quindi, secondo la legge, per il commercio che fa qui dovrebbe pagare le tasse nel nostro paese. Il problema è che se dovesse davvero, ci staremmo perdendo entrate per milioni di euro, visto che la stima del traffico di merci di Amazon in Italia è oggi di circa 1 miliardo.
Siccome il problema della tassazione delle multinazionali del web (non solo Amazon ma anche Google o E Bay eccetera) riguarda tutta l’Europa, in tutti i paesi si stanno chiedendo come tassarle: in Francia hanno fatto un accordo con Google che finanzia un fondo per lo sviluppo del web; in Spagna e Germania hanno fatto una legge e Google deve pagare quando linka un contenuto di altri (e in Spagna Google ha appena chiuso Google news) mentre gli inglesi, dopo averli auditi tutti nella Commissione parlamentare sui conti pubblici, stanno varando una vera e propria web tax: una tassa del 25% sui profitti generati in Inghilterra dalle multinazionali del web. Lo ha annunciato il 3 dicembre scorso il Ministro delle Finanze George Osborne in Parlamento.
Da noi a fare la web tax ci aveva provato, a fine 2013, Francesco Boccia, oggi Presidente della Commissione finanze alla Camera. C’era ancora il governo Letta e Boccia proponeva di far pagare a Google o Amazon almeno l’Iva sui commerci e la pubblicità in Italia. Ma Matteo Renzi, appena eletto segretario del Pd, si era messo di traverso, e appena eletto Premier ha cancellato la tassa. Dice che se ne deve occupare l’Europa, che però può legiferare sulla tassazione diretta solo con l’unanimità dei 28 paesi membri e, per il momento, è difficile che paesi a fiscalità agevolata, come il Lussemburgo o l’Irlanda, votino a favore. Del resto lo stesso Renzi aveva anche detto bisognava occuparsene nel semestre di Presidenza italiana dell’Unione Europea, ma sta per finire e non si è mossa foglia.
Intanto si è mossa l’Ocse che ha radunato 44 paesi (membri e non) e sta cercando di cambiare le regole e i trattati fiscali a livello mondiale. Poi ciascun paese vedrà se e come adeguarsi con leggi proprie. E lo stesso Ocse ci dice: “sostanzialmente sarà per i nostri nipoti vedere gli effetti di tutto questo”. Potremmo quindi provare a fare da soli, come stanno facendo altri paesi europei.
Del resto, a fine 2012, l’allora Ministro Passera aveva fatto una legge per tassare in Italia il traffico italiano delle compagnie aeree che hanno sede legale all’estero per pagare meno tasse. Prima fra tutte Ryanair, che ha la sede in Irlanda. E la norma, semplicemente, dice: se la base aerea è qui le tasse sui voli interni le paghi qui.
Accontentandosi del piano Juncker, dei 30 miliardi scarsi per la crescita?
Nessun commento:
Posta un commento