PrologoUno, due, tre
Keyèh ainì.Il rosso occhio.No.Non era la parola giusta. Keyèh era troppo forte, troppo generico, faceva venire in mente il sangue, un occhio iniettato di sangue, e non era così. Forse un po' ma non tanto.No, Keyèh, no.Guarì, infiammato, allora.No, neppure. Faceva pensare ad un occhio arrossato di pianto e non era neanche così, non così tanto.Perché a lui quello spazio tra i rami del Sicomoro, quell'occhio dolce e un po' obliquo, a lui quella goccia rossa – no, Keyèh, no – ritagliata nel cielo dell'aurora dalle braccia nere dell'albero, a cui piaceva, e molto.Era per quello che appena vedeva i primi riflessi schiarire l'aria fuori dalla porta Jàfet usciva subito da tucul, anche se sarebbe toccato a Isàias, che era più piccolo, portare a pascolare la capretta, e comunque non così presto.Ma lui voleva arrivare al Sicomoro prima che sorgesse il sole, voleva fermarsi sotto quell'ombrello enorme di foglie e di rami robusti come braccia e nodosi come dita, trovare la sua radice tra quelle che scoppiavano fuori dalla terra secca e sedersi a guardare quel buco contro il cielo.[..]Ma non andò così.Sotto il suo occhio c'era una lacrima dritta e nera, una sagoma immobile sul controluce del cielo, appena sotto un ramo gonfio come un muscolo, e che fosse quella di un corpo Jàfet lo capì prima dalle dita dei piedi spalancate nell'aria viola che da tutto il resto.
In quel momento una risata acuta, lontana ma abbastanza vicina da far scattare la capretta come se l'avessero frustata, irrigidì Jàfet in un brivido ghiacciato, la pelle così accapponata dalle natiche alla nuca che sembrava che qualcuno gli stesse tirando i capelli.Schizzò via volando sulle punte dei piedi, perso in un terrore così intenso che neanche zio Wolde avrebbe trovato le parole per raccontarlo.
Torna la “strana” coppia di
investigatori inventata da Carlo Lucarelli: il capitano dei
carabinieri Antonio Colaprico, comandante la stazione di Asmara in
Eritrea e il suo vice, lo zaptiè Ogbagabriel Ogbà.
Strana coppia perché il primo è un
bianco, “ferengi”, e anche italiano “t'lian”,
per cui vale il discorso
“T'lian fetiunnì ilkà aitiaguès, non sentirti felice se l'italiano ti ha detto che ti ama. Non sentirti triste se ti ha detto che ti odia. Mai prenderli sul serio, gli italiani. Fanno sempre cose inutili.”
Ma il capitano Colaprico è un
“t'lian” diverso dagli altri: troppo onesto e tenace
in quell'Italia già così contrabbandiera e piena di intrighi. Sono
gli anni del primo colonialismo, dopo la disastrosa battaglia
di Adua
quando, unico esercito coloniale europeo, fummo sconfitti
dall'esercito del negus Menelik II.
La strana coppia si completa a vicenda:
il suo zaptiè è un investigatore silenzioso, rispettoso dei ruoli
gerarchici col capitano a cui non nasconde le sue deduzioni, nate
dalla sua capacità di osservatore. Come lo Sherlock Holmes dei
romanzi di sir Conan Doyle: non a caso, nel libro riecheggerà più
volte una delle sue celebri massime: “Non c'è niente di più
innaturale dell'ovvio.”
Perché c'è il rischio di farsi
prendere la mano dall'ovvio, dal “commonplace”: tre
abeshà (contadini) che vengono trovati morti, forse impiccati sotto
l'albero di sicomoro, poco lontano dai tucul (le capanne) del
villaggio di Afelba. Viene poi trovato, sempre impiccato (o forse no)
anche il marchese Carlo Maria Sperandio. Che aveva avuto in
concessione dal governatore diversi terreni da coltivare.
Un sognatore questo marchese, non come
tanti altri “ferengi” venuti in terra d'Africa solo per
prendere e trafficare.
Lui voleva perfino piantare delle viti,
per vendemmiare un chianti africano.
Suicidio per tutti e tre, anzi quattro?
Calma.
E cosa c'entra la strega delle iene,
trovata uccisa nel suo tucul a colpi di coltello?
Che fine ha fatto uno degli uomini di
fiducia del marchese, Ciacci, sparito dalla circolazione poco dopo la
sua morte?
“Insomma, era interessante questa cosa del mosaico, ma hadeghegnà, pericolosa.Per esempio, sembrava naturale accomunare tutti e cinque i morti di Afelba, i tre abeshà, il marchese e la strega. E sembrava naturale attribuirli al romagnolo che era scappato. E sembrava naturale, visto come era accaduto, visto il clima di paura del villaggio e l'ostilità dell'esercito, che ci fosse dietro qualcun altro e anche qualcosa di grosso. E alla fine veniva naturale pensare che una grande importanza ce l'avessero le carte cercate nella casa del marchese, forse abbastanza da essere la ragione principale delle morti.Ecco. Sembrava tutto molto naturale, cornice e disegno, anche se a grandi linee, addirittura b'rghez, ovvio.Ma kem fulut neghér zeybahriawì yelèn”.
No, non può essere tutto così
semplice. Carlo Maria, che pure Colaprico conosceva molto bene (così
come sua moglie Anna Maria), non si sarebbe mai ammazzato, nemmeno se
avesse avuto problemi economici.
Bisogna mettere al loro posto tutte le
tessere del mosaico.
Anche se questo significa ficcare il
naso in mezzo agli affari di altri italiani di questa colonia, che è
come una terra sospesa nel tempo. In attesa delle decisioni suo suo
futuro da parte del governo di Roma.
Non sono solo i soldati del forte
Tonelli a Saganeiti a tollerare molto poco l'arrivo di Colaprico,
pure in veste ufficiale, per le indagini.
Perfino la vedova, Anna Maria, relega
tutto in un “semplice” suicidio:
“non c'è nessun mistero in questa storia. Chiudi la tua indagine in fretta. Perché questa volta non ti lascerò rovinare tutto”.
Eppure c'è
qualcosa, nascosta nelle terre date in concessione al marchese (e per
cui lavoravano anche i tre abeshà morti impiccati), per cui vale la
pena di uccidere.
Se quelli di Sciascia erano i
giorni della civetta, i tempi di cui parla Lucarelli sono tempi
delle iene: tempi di affarismo, arricchimenti facili,
speculazioni. Nel corso della sua indagine Colaprico e Ogbà si
imbattono in avventurieri, avvocati (o faccendieri) dagli affari poco
puliti, vedove e madame che reclamano un'eredità dal morto, soldati
rimasti ostaggio di battaglia non combattuta, trafficanti di armi e
di uomini.
Assassini e sognatori.
Un giallo dove serve tanta pazienza e
la dose giusta di intuito per mettere assieme le tessere del mosaico.
Perché, alla fine, la soluzione è sotto gli occhi, sotto il caldo
sole africano.
Elementare Watson.
I precedenti racconti “africani” di
Carlo Lucarelli
La scheda sul sito di Einaudi
e un estratto
dal libro.
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