«I galantuomini nella malavita sono
una razza in via di estinzione».
«Ho un problema, Alligatore» annunciò il cliente con un cantilenante accento veneziano. «Altrimenti non saresti qui» ribattei acido mentre sbirciavo le gambe della cameriera che ci aveva appena servito. Il tizio si chiamava Pierluigi Barison detto Gigi Granseola.
Un altro caso per Marco Buratti, l'Alligatore, l'investigatore padovano nato dalla penna (e dalle
esperienze personali) di Massimo Carlotto: ex cantante di blues, ex
detenuto per l'accusa di favoreggiamento di un terrorista. Smessa la
carriera di cantante, ritrovatosi con la gola secca, ha deciso di
mettere a frutto delle sue conoscenze nel mondo della criminalità
fatte in carcere. Per svolgere quelle inchieste in cui c'è bisogno
di andare a sporcarsi le mani nel mondo della criminalità, cosa poco
gradita a certi avvocati.
Dei bei tempi degli
Old Red Alligators, è rimasta la passione per questo genere
musicale e il suo coktail preferito:
“calvados Roger Groult e drambuie in parti uguali. Il tutto guarnito da una fettina di mela verde che andava masticata lentamente alla fine”.
In questa storia,
il suo cliente è un membro della mala del Piovese, o del Brenta: un
gruppo criminale dedito al traffico di droga, al riciclaggio,
all'estorsione, con una struttura piramidale con al centro Tristano
Castelli e sotto di lui pochi sottocapi di fiducia, cresciuti
assieme:
“Castelli aveva fondato il suo impero sulla violenza metodica e spietata. Come la mafia. Non a caso giudici e giornalisti la chiamavano la mafia del Brenta. I metodi erano gli stessi. Ecco perché i cambisti del casinò pagavano...”.
Tristano ha deciso di uccidere Gigi “Granseola” Barison, e quest'ultimo chiede all'Alligatore di fare da paciere, tra lui e il capo, per arrivare ad un accordo.
Ma il lavoro di
paciere, non porta ad alcun risultato: la banda vuole sapere dove si
trova Barison per chiarirsi, ma è solo una trappola per farlo fuori.
L'Alligatore, si trova così in una difficile situazione, non potendo
tradire la fiducia del cliente (sebbene sia un criminale), ne
rischiare la vita raccontando una bugia.
Deve chiamare in
causa l'amico Beniamino Rossino, il vecchio rapinatore milanese “uno
degli ultimi rappresentanti della malavita vecchio stampo”, ora
dedito a traffici poco legali con la ex Jugoslavia.
«Il boss vuole che gli consegni Barison. Il messaggio è stato chiaro: se so dove si trova mi devo sbrigare a dirglielo, in caso contrario devo aiutarli a cercarlo».
Per trovare una soluzione, i due devono trovare una strategia anche in fretta: per quale motivo Tristano e i suoi vogliono uccidere un loro gregario? Come convincere la banda a rispettare il suo ruolo di paciere?
Si rendono subito
conto del guaio in cui si sono cacciato quando vengono arrestati, con
un pretesto, dai carabinieri, e costretti a diventare loro
informatori, pena una condanna per spaccio.
«Stavo maledicendo il giorno in cui ho accettato l’incarico di Barison». «La verità è che ogni volta che giochi a fare l’investigatore mi trascini in storie di merda dalle quali usciamo per il rotto della cuffia». La voce di Rossini era stridula e rancorosa.
A questo punto, non rimane che andare a chiedere aiuto a Max la memoria, il terzo uomo del gruppo: l'analista, l'archivio vivente, anche lui con una condanna per favoreggiamento sulla testa.
«Abbiamo bisogno di aiuto, socio». Mi fissò dritto negli occhi. «Tu hai già un’idea in testa». «Max la Memoria». «È un politico, cosa vuoi che ne sappia di cose di malavita». «È un analista coi fiocchi, migliore di quelli della mala. Nel caso Belli ci ha tirato fuori dai guai».
Grazie a lui,
l'Alligatore e Rossini troveranno i punti deboli della banda, per
colpire Castelli e i suoi killer.
Perché a questo
punto non è più in gioco la sua parola di paciere, ma la loro vita
stessa.
Nessuna cortesia
all'uscita è un noir che prende ampiamente spunto dalla realtà
criminale veneta: dietro Castelli e i suoi è facile riconoscere la
mafia del Brenta di Felice Maniero. Il criminale che con la sua
feroce organizzazione criminale dal piccolo paese di Campolongo
Maggiore arrivò a controllare non solo tutto il Veneto, ma anche
altre zone d’Italia e costrì traffici illegali internazionali con
i Balcani. La parabola di Felice Maniero racconta, da
un punto di vista criminale, l’espansione fulminea del Nord-Est,
uno dei settori geografici più produttivi del nostro Paese.
Una parabola che finisce col suo arresto e il suo pentimento: un pentimento che però
ha lasciato dietro tanti dubbi, per come è arrivato.
Il suo fu un pentimento, o una
dismissione di una azienda (la sua banda) in crisi dopo gli arresti?
C'è stata una trattativa, prima del
suo arresto, che ha portato poi al suo pentimento? E poi, Maniero, ha
detto proprio tutto su tutto, delle cose che sapeva ai giudici?
I conti all'estero, che fine han fatto?
I conti all'estero, che fine han fatto?
Chi ha permesso il
riciclaggio dei suoi soldi?
Sono tutte domande
che, in modo romanzato, hanno una risposta nel libro di Massimo
Carlotto che racconta non solo del declino morale del nordest, ma
anche del declino delle bande criminali italiane, nel Triveneto.
Per l'invasione
della criminalità straniera dall'Albania, dalla Russia e perfino
dalla Bielorussia, i nigeriani e i turchi. E poi tutte le mafie nate
dalle ceneri degli stati della ex Jugoslavia.
La cosa più
sorprendente, per un lettore che sa leggere queste storie non solo
come un giallo, ma anche da un piano sociale e storico, è lo
scoprire la permeabilità di un'intera regione alla criminalità.
Avvocaticchi che si
lasciano usare dalle bande solo per un briciolo di notorietà.
Poliziotti e
carabinieri che si fanno comprare perché semplicemente marci dentro,
avidi di soldi, di belle donne, di bella vita.
E anche
imprenditori incensurati che si prestano, coscientemente o meno non
importa, al riciclaggio del denaro sporco della mafia.
Che non si fanno
scrupoli nell'usare manovalanza cinese, senza contratti ne controlli,
nei tanti capannoni industriali: “poi ci sono i cinesi, l’ultimo
business di Tristano. La banda fornisce manodopera ai padroni delle
fabbriche che vogliono mettere su laboratori in nero...”.
Funzionari di banca
che indirizzano le persone in crisi di liquidità verso gli usurai.
E infine, il mondo
della giustizia: nemmeno la magistratura ne esce pulita da
questo quadro. Uno dei protagonisti del romanzo è un magistrato
dell'antimafia, con qualche lato oscuro e con pochi scrupoli di
coscienza (anche nell'uso dei pentiti), pur di arrivare alla cattura
di Castelli e della sua banda.
Il romanzo, come ho
già detto, pesca ampiamente dalla realtà: le sezioni in corsivo,
che spezzano i capitoli del libro, sono tratte dalle sentenze
ufficiali emesse dalle corti d'Assise che hanno giudicato la banda.
“Nessuna
cortesia all'uscita” è un romanzo di cattivi contro
cattivi, dove non c'è spazio per la bontà e nemmeno per
l'ingenuità. Da una parte abbiamo la vecchia mala come Rossini, con
le sue regole e i suoi rituali (i braccialetti d'oro al polso come
scalpo delle persone uccise). Persone come Marco Buratti, fuori dal
mondo, a suo modo un eroe, fortunato no, ma sicuramente solitario.
Anche lui con le sue regole da rispettare e coi suoi rituali, il suo
coktail a base di Calvados, “l'Alligatore”.
Dall'altra parte un
mondo criminale brutale, senza regole, anzi con l'unico obiettivo che
è quello del potere e dei soldi.
Per sopravvivere a
questo mondo, una volta che ci finisci dentro, bisogna accettare la
violenza
«Mia madre faceva Jakob di cognome».
«Continuo a non seguirti».
«Mi ha insegnato un detto che circolava tra la sua gente ai tempi dei pogrom, quando salvarsi significava attraversare la porta del ghetto senza guardarsi indietro: “Nessuna cortesia all’uscita”.
Il blog
di Massimo Carlotto, la scheda del libro sul sito di Edizioni
E/O
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