Prologo
Porto Torres, domenica 14 aprile 1963«E ora?» La voce catarrosa di nicotina di Mario Moruzzi quasi si perse nello sferragliare del motore.«E ora niente, volva spaventarci, tutto qua. Stiamo attenti per un po'. Magari lo diciamo a qualcun altro. Lo abbiamo in pugno.» Armando Ortu si voltò a guardare il collega seduto sul sedile del passeggero del Lancia Esatau B.Anche nell'oscurità dell'abitacolo poteva vedere la ricrescita scura della barba rasata di fresco. Avrebbe dovuto farsela due volte al giorno. Gli occhi non dicevano nulla.«E' troppo potente per tenerlo in pugno.»«Sappiamo cosa sta facendo. Non dimenticarlo.»
Inizia a scartamento ridotto questo
romanzo del vicedirettore del Corriere Daniele
Manca: un po' come succede al protagonista, Carlo Passi,
giornalista al Giorno Carlo Passi, che (dopo il prologo) incontriamo
mentre si trova alle prese con un post sbronza:
La Michela
Milano, giovedì 2 maggio 1963
Carlo cercò di mettere a fuoco il marchio del Cynar stampato sull'enorme specchio dietro il bancone del locale della Michela. La donna lo osservava già da un po' con uno sguardo a metà tra il divertito e l'affettuoso. Ironico, o và a sapere. Non le sarebbe mai crollato davanti. Non era soltanto la sua implacabile eleganza, aveva un trucco che in fondo era sempre lo stesso: fissarsi su qualche particolare, ricacciando indietro gli assalti dell'alcol alla bocca dello stomaco e al cervello.Ma c'era poco da fissarsi su quel grosso carciofo, o sul grottesco faccione della spuma Giommi, era chiaro che aveva esagerato.«Ti piacerebbe se rimanessi a dormire qui?»Ci stava tornando troppo spesso in quel sottoscala.E sempre da solo.Di amici non ne vedeva girare molti intorno a sé, ultimamente. Per non parlare di donne. Non gli andava giù che la storia con l'Enrica fosse finita, e quella con l'Elisabetta, poi, gli era valsa giusto un tetto sulla testa e una branda su cui dormire.Gli restava la Giulietta.
Mollato
senza troppe spiegazioni dalla fidanzata Enrica, giornalista pure
lei, ma alla Rai.
Lo
vediamo girare le strade di Milano in questa fresca primavera del
1963. La “Rossa” che da il titolo al libro non è la fidanzata
(pure lei dai capelli color rame) ma la sua Alfa Romeo del 1960,
rossa fiammante.
Non
solo una macchina, ma anche un rifugio dell’anima quando «vuoi
stare solo e devi rimettere in ordine le cose», quando ci sono
troppe domande a cui non si riesce da dare risposta.
Che
fine ha fatto Enrica?
E,
altra domanda che si aggiunge alle altre, chi è la ragazza che ora
vive nell'appartamento di Enrica, un altra ragazza, una bella
morettina che assomiglia all'attrice Natalie Wood.
Alle stranezze se
ne aggiunge un'altra: l'incarico che riceve dal suo direttore,
Baldori, per un servizio su un petroliere potente, Raminghi,
su cui girano tante voci su traffici poco leciti del petrolio e di
cui si dice essere molto ammanicato con la politica.
Politica che,
appena passate le elezioni politiche, deve ora trovare nuovi
equilibri: la Democrazia rimane primo partito ma ha arrestato la sua
crescita, diversamente dal partito comunista di Togliatti e dai
socialisti di Nenni. Sarà l'inizio dei governi di centro sinistra,
con nuovi potenti a dividersi le poltrone e i pezzi di potere in
quell'Italia ancora giovane.
Ma tutte queste
cose sfuggono al povero Carlo Passi, bravo a buttar giù i
pezzi sul foglio bianco ma ingenuo di come funzionano i meccanismi
del potere.
All'improvviso la
sua vita prende una accelerazione: assieme all'amico giudice Everardo
Piccioni (amico del padre, ex
fascista, di quelli che non avevano subito cambiato fede politica)
va a casa di Enrica per cercare
qualche appunto, per capire a cosa stava lavorando; il giudice
viene aggredito e lui arrestato mentre insegue uno dei due
aggressori, e viene pure sbattuto in cella..
Carlo si sentiva come avvolto in una bolla. Faceva fatica a capire cosa gli era successo nelle ultime 12 ore. Prima la sbronza dalla Michela, poi l'incontro inaspettato con quella femme fatale, e ancora il mistero su che fine avesse fatto l'Enrica, e infine di nuovo lei, quella moretta e il suo strano invito. Chissà se stava davvero giocando con lui. Lo squillo sgraziato del telefono seguito da un "Pronto", lo riportò alla realtà.
Qualcuno inizia a
seguirlo, perfino nella nuova casa dell'amica giornalista Elisabetta,
un bilocale al “Borg
de scigulatt”, il borgo degli ortolani (la zona a nord, attorno
a via Canonica).
Cosa sta
succedendo? Una vita a stare lontano dai guai, con quella aria da
simpaticone che piaceva tanto alle donne, e all'improvviso ti ritrovi
in cella, senza aver nemmeno capito in che guai sei andato a finire.
Colpa delle domande
su Raminghi? Colpa del servizio a cui sta lavorando Enrica?
E cosa significano
quegli articoli di giornale trovati da Enrica dove si parla di due
camionisti uccisi a Porto Torres, guarda caso dove si trovano gli
impianti del petroliere Raminghi?
C'è forse un
collegamento?
Glielo racconterà
Saviolli, banchiere e amico di famiglia, chi è Raminghi e
quanto è grande il gioco in cui si è infilato: in Italia funziona
così, per diventare un imprenditore famoso c'è bisogno di buoni
rapporti con le banche e con la politica:
«... Solo che in Italia la politica funziona ancora da passe-partout. Fai una porcata? Dalle una coloritura politica e vedrai che gli italiani romanticoni e coglioni te la lasciano passare. Rubi per te? Sei un ladro. Rubi per te perché sei in lotta per un mondo migliore per tutti? Per un ideale, quale che sia? Vedrai, in fondo non sei proprio un ladro.»«Ma perché Raminghi ruba?»«Ruba. Ruba, parola grossa. Diciamo che si infila nei buchi si uno Stato giovane che ancora non si è abituato a far rispettare i propri interessi. Come un topo nel formaggio. E così, in questa gruviera che è il nostro paese, anche quelli che vogliono rovesciarlo, il Paese, facendolo tornare agli anni del regime, possono prosperare. Se poi questo serve a tenere i comunisti lontano dal governo .. »
Il romanzo di
Daniele Manca è un racconto della Milano (e dell'Italia)
degli anni sessanta: l'Italia del Cynar, dei televisori Phonola,
delle osterie, della grande Inter, dei quartieri nobili come
l'appartamento in via Crocetta di Enrica e dei quartieri dormitori
come la “Corea”.
Dove vivevano tutti
i meridionali raccontati da Luchino Visconti in Rocco e i suoi
fratelli.
Non è l'unico
contrasto in questo romanzo: l'Italia degli anni 60 (che già allora
aveva perso la sua innocenza ma ancora non se ne era accorta) viene
vista attraverso gli occhi dei due giornalisti, con due visioni del
loro lavoro diverse.
Da una parte Enrica
una giornalista determinata, di quelle che intendono cambiare il
mondo col suo lavoro:
Si giocava tutto, con
quell'inchiesta. Aveva messo le mani nella tana di uno dei serpenti
più velenosi di quel rettilario che era il potere italiano.
E dall'altra parte
Carlo, l'ingenuo Carlo, che faceva quel mestiere come fosse un lavoro
qualsiasi:
Chissà come stava Carlo. Chissà se avrebbe capito; a volte sembrava solo un ragazzone ingenuo. Pareva non cogliere le connessioni, o non voleva vederle. Faceva il giornalista come se svolgesse un servizio per gli altri, come se l'obiettivo fosse far capire, come un giudice o chissà cosa. Non capiva che il suo lavoro doveva cambiare il mondo. Simpatico e divertente, sì, quello sì. Ma dell'Italia che si stava dividendo tra chi era dalla parte giusta e gli altri non gliene fregava niente.
Carlo l'ingenuo
forse, uno “che aveva passato la vita a lasciarsi vivere”. Ma
non ingenuo a tal punto dal non rendersi conto di essere stato usato
da troppe persone per i loro scopi: di chi deve fidarsi per uscire
dal gioco grande in cui è finito?
Dall'amico giudice,
che lo mette a conoscenza dei documenti riservati sui potenti, che
custodisce nel suo archivio segreto, per colpire qualche suo ex
compare?
O del direttore del
suo giornale, Baldori, che gli aveva affidato quel servizio per fare
bella figura con la proprietà.
Sullo sfondo
l'Italia, la sua coscienza opaca, le trame per il potere, degli
equilibri politici che nessuna elezione doveva perturbare.
Il finale aperto
lascia sperare che questo sia solo un primo capitolo per futuri
sviluppi, sull'Italia degli anni del boom.
Quelli che avrebbero
potuto modernizzare il nostro paese non solo nella facciata e che
invece hanno portato, per usare le parole di Pasolini, ad uno
sviluppo senza progresso.
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