Riprende la stagione di Presa diretta
con un'inchiesta sul rischio terrorismo in Italia: chi sono quelli
che ci vogliono colpire e come possiamo difenderci?
Sono passati 16 anni dall'11 settembre,
ma navighiamo ancora nel flusso di quella tragedia, il mondo non è
più sicuro, l'incubo nucleare è ora in Corea.
Ma a differenza di allora l'allarme
terrorismo arriva da dentro di noi: anche se fino ad oggi non ci sono
stati attentati in Italia, sono 43 gli italiani morti per mano del
terrorismo islamico.
Come Luciano Tadiotto, morto in
Marocco, dove stava portando lavoro.
22 delle vittime giravano il mondo per
lavoro o per studio: come le morti in Bangladesh a Daccra, uccisi in
un ristorante, tra cui Maria Ribioli, che si occupava di qualità per
la sua azienda, nel settore tessile.
“Il sorriso di Maria era
eccezionale”, queste le parole della sorella, che la ricorda così,
sorridente, in modo costruttivo: “io non voglio vivere col terrore
di uscire di casa”.
A Londra è morta Benedetta Ciaccia:
era un'analista finanziaria, uccisa in un attentato a pochi mesi dal
suo matrimonio.
Il suo posto a Londra se lo era sudato,
senza raccomandazioni, figlia di gente normale: ancora oggi il padre
si commuove al pensiero della figlia. Una morte che non si accetta,
come non si accetta il fatto che la via a lei dedicata sia diventata
una discarica.
Altri 21 morti erano in giro per
turismo: Gianna e Angelo sono morti nel loro anniversario di
matrimonio, a Nizza.
Paola e Daniela Bastianutti sono morte
invece a Sharm El Sheik, uccise da un kamikaze.
Dovevano festeggiare la laurea di
Daniela.
I genitori per ricordare le figlie
hanno fondato una casa famiglia per bambini in difficoltà
Luca Russo è morto a Barcellona, come
Bruno Gulotta. Nessuno si poteva immaginare un attentato in una città
così aperta e cosmopolita.
Il camion ha mirato proprio alle
famiglie con bambini ..
Come possiamo fare in modo che non
aumenti la lista delle vittime, come possiamo prevenire gli
attentati? Saranno le risposte che cercherà di dare il reportage.
Isis obiettivo Italia.
L'allarme rosso
per un attentato in Italia è stato lanciato dai Servizi sei mesi fa:
l'Isis perde terreno sul fronte mediorientale ma aumenta il rischio
di attacchi a casa nostra.
La promessa di un
attacco è stata annunciata da un video di propaganda: altri video
online annunciano la conquista di Roma, dal Colosseo al Vaticano.
Nella rivista
della jihad Rumiya si dice che non si fermeranno, fino agli ulivi di
Roma: porterebbe consenso, attenzione, audience nel mondo islamico.
Roma è una grande
opportunità: il “site intelligence group”, che monitora
le attività dei jihadisti su Telegram, ha scoperto che l'Italia è
il prossimo obiettivo.
Un gruppo di
terroristi kosovari stava preparando un colpo a Venezia, al Rialto: i
carabinieri li hanno seguito, ne hanno seguito l'addestramento, anche
fisico.
E anche la
radicalizzazione, seguendo filmati in rete, così come è successo a
decine di altri ragazzi in Europa.
I ragazzi kosovari
si addestravano in palestra, per picchiare nel modo più efficace:
una violenza che hanno sfogato anche in risse dentro locali.
Aspettavano il
giuramento al gruppo per poter compiere il primo attentato: quando il
rischio è diventato troppo alto sono entrati in azione carabinieri e
polizia, la notte del 30 marzo.
Il procuratore
D'Ippolito ha raccontato alla giornalista come la zona del
Triveneto sia una zona di passaggio dei terroristi, il che ci
costringe a tenere alta l'attenzione, da allarme rosso.
“Viviamo un
momento di sospensione” commentava Iacona, questa la nostra
reazione ad ogni episodio di terrorismo: l'unica soluzione è la
conoscenza, sapere come si muovono, come si addestrano, da dove
arrivano, quali sono gli spostamenti da e verso la nostra frontiera,
come quella verso l'est.
La zona del Kosovo
è cruciale, da qui è partita Giulia Bosetti, intervistando il
nipote di uno degli arrestati di Venezia: non c'erano prove della sua
colpevolezza ed è stato espulso.
Nega qualsiasi
coinvolgimento, come anche le famiglie degli arrestati: i loro
parenti sono innocenti. Negano i post su facebook, negavano le
bandiere dell'Isis.
La guerra
dell'Isis? È una guerra politica, anche gli eserciti stranieri
uccidono bambini, dunque sono terroristi anche loro.
L'inchiesta di
Venezia mette in fila le correlazioni tra Venezia, Kosovo e Siria: un
legame emerso anche da un'inchiesta di Brescia, che ha portato
all'arresto del macellaio dei Balcani.
Il kosovo è
diventato un paese strategico per l'Isis, per il traffico della
droga, per lo spostamento dei jihaedisti.
Dopo la guerra in
Kosovo i paesi dell'area del golfo hanno finanziato la costruzione di
moschee, molti giovani sono andati a studiare in questi paesi e sono
tornati radicalizzati- racconta un giornalista kosovaro, che sta
seguendo il fenomeno dell'Isis.
L'Islam arrivato
dal golfo ha provocato la radicalizzazione dei peggiori: sono i paesi
con cui noi occidentali stringiamo accordi da miliardi, forniamo
armi. Non dimentichiamocelo.
Anche Anis Amri
si è radicalizzato in carcere: la sua storia è molto istruttiva di
come funziona il meccanismo di radicalizzazione in carcere.
Ha ucciso 12
persone, guidando un camion a Berlino: ha immortalato in un video il
suo giuramento al califfo Al Bagdadi: “macelleremo voi maiali
infedeli ...”
A Berlino ha
ucciso le persone, ma la sua storia è cominciata in Italia, dove è
sbarcato a Lampedusa: aveva alle spalle dei precedenti, così ha
raccontato di avere 17 anni.
Da fuoco alla
comunità che lo ospita, va in diversi carceri e a Palermo, dove
viene radicalizzato: assume comportamenti violenti, aggredisce il
personale di polizia penitenziaria.
La sua storia è
un segnale importante per comprendere come funziona il radicamento
nelle carceri: è il luogo più facile dove radicalizzare.
Viene espulso
dall'Italia ma la Tunisia non collabora, così Amri passa prima per
il Lazio da un amico e poi va in Germania.
Nel centro di
accoglienza beveva e fumava, andava a donne.
Dopo era diventata
una persona religiosa, estremista, che passava le giornate a leggere
il Corano.
Bosetti è andata
dalle sorelle di Amri in Tunisia: sono orgogliose del fratello,
fiere. Nessun pentimento, nessun rimorso.
Da questo paese
sono partiti molti foreign fighters per la Siria o in Libia: molti
sono reclutati per soldi, racconta un ragazzo del posto.
Un compagno di
Amri racconta del ragazzo che aveva conosciuto in Tunisia: non era
praticante e non andava in Moschea.
I reclutatori che
oggi arrivano in Tunisia convincono i ragazzi puntando sulla ricerca
di un identità, per ragazzi che non hanno un lavoro o una
prospettiva.
Anis Amri si è
radicalizzato nelle prigioni siciliane: il fratello ha accettato
l'intervista e ha raccontato della storia di Anis in carcere.
Le punizioni prese
e poi l'incontro con altri detenuti che gli hanno fatto il lavaggio
del cervello.
Amri è entrato
nel mirino della polizia tedesca a pochi mesi dal suo arrivo in
Germania, viene classificato subito come foreign fighters: tre mesi
prima dell'attentato si interrompe il monitoraggio, mentre Amri
comincia a fare proselitismo su Facebook e smette di comunicare coi
familiari.
Anis era in
contatto col nipote, con Telegram, a cui aveva inviato anche dei
soldi: il nipote è stato arrestato con l'accusa di terrorismo.
E così ora anche
per lui c'è il rischio radicalizzazione in carcere.
Rischio di cui è
consapevole anche il ministro Orlando, che in Parlamento ha parlato
dell'attività di monitoraggio del DAP: più di 375 individui, oltre
a quelli a rischio, il cui controllo è quasi impossibile.
Le nostre carceri
sono piene di immigrati, molti sono islamici e di questi alcuni hanno
anche esultato dopo episodi di terrorismo – racconta il capo del
DAP, Consolo.
E gli istituti
mancano di strumenti per affrontare questo problema: traduttori, per
esempio. La mancanza di luoghi di culto, di Imam che incontrino i
detenuti.
Così i detenuti
islamici si costruiscono l'identità di vittima, per motivi
religiosi, da parte di uno Stato che li rinchiude solo per motivi
religiosi.
Il miglior regalo
per gli estremisti.
Samad Bannaq è un
ex detenuto: ha raccontato di come avvengano le trasformazioni
religiose, in carcere, per l'odio verso l'esterno, per l'isolamento.
Così arrivano i
“cattivi maestri” che hanno gioco facile su queste persone: il
loro odio diventa così il carburante per la radicalizzazione.
Si deve partire
dal carcere dunque, dalla possibilità di praticare la religione,
da luogo di riflessione: questo succede al carcere di Torino,
dove il 40% dei detenuti è di religione islamica.
Qui un Imam, con
l'accordo dell'amministrazione penitenziaria, prega dentro il
carcere, sia in Arabo che in italiano, perché vuole che gli italiani
sappiano quello che si dicono.
Un Imam e anche un
mediatore culturale: il clima in carcere è migliorato, sono
diminuiti gli episodi di autolesionismo, di violenza.
Peccato che Torino
sia un caso isolato: un sistema dove lavorano tutti assieme,
l'amministrazione, la polizia penitenziaria, la comunità musulmana.
L'esercito nelle
città, il monitoraggio dei presunti terroristi.
Dietro però c'è
il lavoro dell'intelligence.
Siamo indietro su un punto: la
prevenzione.
Lorenzo Vidino è
il presidente della commissione Jihadista: siamo indietro rispetto ad
altri paesi europei sulla radicalizzazione, che non avviene più
nelle moschee ma nelle prigioni, su internet o per le amicizie.
Questo rende il
lavoro di monitoraggio più complesso: mancano però delle politiche
di prevenzione della radicalizzazione, o per de-radicalizzare persone
già estremiste.
Il fronte del reclutamento: il web
Giulia Bosetti ha
raccontato la storia della moschea di Lecco: l'Imam viene contattato
su FB da una persona che ha cercato di reclutarlo, invitandolo a
venire in Siria per combattere.
In occidente non
si può essere musulmani – diceva questa persona: sei una donna,
sei una persona infedele ..
L'Imam ha
contattato la Digos che ha rintracciato la persona, dalla Siria: era
una persona cresciuta a Milano, da dove è partito per arruolarsi
dentro lo stato islamico.
Monsef è
diventato un terrorista passando tempo su internet – racconta il
prete che lo ha seguito per anni nella comunità per minori: ha visto
crescere il suo astio contro l'occidente, lo svilupparsi di una nuova
identità, nel radicalismo, lui che era cresciuto senza genitori.
Ragazzi senza
identità che ne trovano una, nell'estremismo religioso.
Il 17 gennaio 2015
Monsef si è imbarcato per Istambul da Bergamo, assieme all'amico
Tariq: hanno acquistato anche un biglietto di ritorno, per ingannare
la polizia di frontiera.
In Siria, dopo
l'addestramento, ha cominciato a reclutare gli amici via internet,
quelli dentro la comunità: venire nella terra dell'Islam per
combattere gli invasori.
Monsef è stato
condannato in contumacia ad otto anni, per il suo proselitismo
online.
In questi mesi si
sta iniziando a studiare il mondo del web e del radicalismo, con
colpevole ritardo: manuali tradotti, raccolta fondi, video, inviati
via web, su Telegram, in particolare, che ha meno controlli rispetto
ad altri canali.
Una giornalista
francese, Anne Erelle, è entrata in contatto coi vertici dell'Isis,
come Abu Bilel, navigando su internet: ha dimostrato quanto è facile
entrare in contatto con le persone dell'Isis. Di come funzionano le
tecniche di persuasione dei ragazzi: nello stato islamico non c'è
povertà, ci sono opportunità.
Erelle ha
rischiato molto per questo suo lavoro, è stata lanciata una fatwa
contro di lei.
In fondo a queste
storie c'è un fanatismo feroce, un mondo in bianco e nero, tagliato
di netto: le persone che entrano in questo mondo si lasciano
ammazzare per la loro ideologia.
Uscire da questo
mondo è difficile: per tirarli fuori da questa identità devi
disgregarla, per costruirne una nuova.
L'esperienza danese
Il problema del
radicalismo non può essere risolto solo col lavoro delle
intelligence: in Danimarca hanno scelto di combattere l'estremismo
con progetti di de-radicalizzazione.
Qui hanno studiato
i migliori progetti al mondo: hanno fatto prevenzione, cercando di
intervenire sui primi passi dei ragazzi.
I danesi sono
entrati nei ghetti, hanno collaborato con la comunità islamica
cercando le persone che potevano aiutarli, come l'avvocatessa
Parwani.
Si sentiva esclusa
dalla comunità, isolata, per la sua religione: la cosa più
pericolosa è l'emarginazione e l'isolamento, bisogna dare loro un
posto dove sfogarsi, dove confrontarsi.
La città di
Aahrus è al centro di questo progetto che coinvolge insegnanti,
polizia, anche persone religiose della comunità musulmana.
Un tutor segue i
ragazzi radicalizzati per riportarli dentro la società che non
devono più sentirsi esclusi: bisogna trovare un equilibrio tra la
cultura occidentale e quella delle famiglie di provenienza.
La moschea della
città è un ponte tra la comunità e i giovani: a Copenaghem l'Imam
è una donna, che insegna l'islam critico, che diffonde il messaggio
di un islam come religione di pace.
Il terrorismo è
un problema politico non religioso, spiega l'Imam donna: sento che la
mia missione sia parlare a culture e religioni differenti.
I partiti
nazionalisti puntano sulla islamofobia, che porta ad ulteriore
radicalizzazione: ma se le persone si sentissero integrate, non si
radicalizzerebbero.
Il modello danese
potrebbe arrivare anche in Italia, dentro le nostre città, nelle
scuole, nelle moschee, nelle nostre carceri.
E la politica deve
smettere di alzare i toni, puntando ad incassare i voti della paura,
perché sta facendo proprio quello che l'Isis vuole.
E chissà se i
Salvini lo hanno capito.
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