Incipit
La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba.Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo.Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre erano chiuse, a catenella, visibilmente da lungo tempo.
«Quando la rivedrò? Prima della fine della guerra è impossibile. Non è nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrò a Torino a cercarla. È lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria».
Il suo compagno si avvicinava, pattinando sul fango fresco.– Perché hai deviato? – domandò Ivan.
– Perché ora ti sei fermato? Cosa guardi? Quella casa? Perché ti interessi a quella casa?
– Non la vedevo dal principio della guerra, e non la rivedrò più prima della fine. Abbi pazienza cinque minuti, Ivan.
– Non è questione di pazienza, ma di pelle. Quassù è pericoloso. Le pattuglie.
– Non si azzardano fin quassù. Al massimo arrivano alla strada ferrata.
– Dà retta a me, Milton, pompiamo. L’asfalto non mi piace.
– Qui non siamo sull’asfalto, – rispose Milton che si era rifissato alla villa.
– Ci passa proprio sotto, – e Ivan additò un tratto dello stradale subito a valle della cresta, con l’asfalto qua e là sfondato, sdrucito dappertutto.– L’asfalto non mi piace, – ripeté Ivan.
– Su una stradina di campagna puoi farmi fare qualunque follia, ma l’asfalto non mi piace.
– Aspettami cinque minuti, – rispose cheto Milton e avanzò verso la villa, mentre soffiando l’altro si accoccolava sui talloni e con lo sten posato sulla coscia sorvegliava lo stradale e i viottoli del versante. Lanciò pure un’ultima occhiata al compagno.
– Ma come cammina? In tanti mesi non l’ho mai visto camminare così come se camminasse sulle uova.
Ho appena terminato
di leggere "Una questione privata" e mi sembra di non aver
letto nulla di importante finora. Nulla di così intenso e
trascinante, di intenso e semplice allo stesso tempo, come sanno
essere le passioni, raccontate da scrittori che quelle passioni le
hanno vissute sulla loro pelle..
La guerra, il
coraggio, la fame, i brividi del freddo. E l'odio per il nemico, dopo
mesi di sofferenze per questa guerra civile di italiani contro
italiani:
Io ti posso chiamare ragazzo. Io sono uno che mette le lacrime quando il macellaio viene a comprarmi gli agnelli. Eppure, io sono quel medesimo che ti dice: tutti, fino all'ultimo, li dovete ammazzare. E segna quel che ti dico ancora. Quando verrà quel giorno glorioso, se ne ammazzerete solo una parte, se vi lascerete prendere dalla pietà o dalla stessa nausea del fango, sarà un vero tradimento.
La passione per un
amore lontano, custodito come un tesoro nei ricordi della propria
mente.
Ma anche la
gelosia, l'altra faccia dell'amore, quando questo è per una persona
forse sfuggente, sicuramente ora lontana.
“Una questione
privata” racconta di un inseguimento, una verità da scoprire
ad ogni mezzo, anche rischiando la propria pelle.
Ci troviamo sulle
colline sopra Alba nell'inverno 1944-45, l'inverno più lungo della
nostra Repubblica: di ritorno da una perlustrazione, Milton un
partigiano “Badogliano”, si ritrova davanti la villa dove viveva
Fulvia, una ragazza sfollata da Torino di cui si era innamorato.
Scattò tutta la testa verso di lui e disse: «Come comincerai la tua prossima lettera? Fulvia dannazione?» Lui aveva scosso la testa, frusciando i capelli contro la corteccia del ciliegio. Fulvia si affannò. «Vuoi dire che non ci sarà una prossima lettera?» «Semplicemente che non la comincerò Fulvia dannazione. Non temere, per le lettere. Mi rendo conto. Non possiamo più farne a meno. Io di scrivertele e tu di riceverle».Era stata Fulvia a imporgli di scriverle, al termine del primo invito alla villa. L’aveva chiamato su perché le traducesse i versi di Deep Purple.Penso si tratti del sole al tramonto, gli disse. Lui tradusse, dal disco al minimo dei giri. Lei gli diede sigarette e una tavoletta di quella cioccolata svizzera. Lo riaccompagnò al cancello.
«Potrò vederti, – domandò lui, – domattina, quando scenderai in Alba?»
«No, assolutamente no».
«Ma ci vieni ogni mattina, – protestò, – e fai il giro di tutte le caffetterie». «Assolutamente no. Tu ed io in città non siamo nel nostro centro».
«E qui potrò tornare?»
«Lo dovrai».
«Quando?»
«Fra una settimana esatta». Il futuro Milton brancolò di fronte all’enormità, alla invalicabilità di tutto quel tempo. Ma lei, lei come aveva potuto stabilirlo con tanta leggerezza?
«Restiamo intesi fra una settimana esatta. Tu però nel frattempo mi scriverai». «Una lettera?»
«Certo una lettera. Scrivimela di notte».
«Sì, ma che lettera?»
«Una lettera».
Per lei scriveva
lettere, le faceva ascoltare dei dischi, in inglese. Un amore senza
condizioni, come succede solo a vent'anni, forse nemmeno troppo
corrisposto.
La custode della
villa, che si ricorda delle sue visite alla villa, gli racconta degli
incontri notturni di Fulvia con un suo amico, Giorgio.
– E poi?
– E poi cosa? – fece la custode.
– Fulvia e… lui?
– Giorgio alla villa non si faceva più vedere. Ma usciva lei. Si davano appuntamento. Lui aspettava a cinquanta metri, addossato alla siepe per confondersi. Ma io ero all’erta e lo vedevo, lo tradivano i suoi capelli biondi. Quelle notti c’era una luna che spaccava.
– E questo fino a quando?
– Oh, fino ai primi dell’altro settembre. Poi successe il finimondo dell’armistizio e dei tedeschi. Poi Fulvia andò via da qui con suo padre. E io, pur affezionata come le ero, fui contenta. Stavo troppo sulle spine. Non dico che abbiano fatto il male…
Eccole le passioni.
In quell'inverno dove chi doveva vivere e chi morire lo decideva a
volte il caso, dove si doveva dormire nelle stalle, per stare al
caldo, dove trovare del pane per riempirsi lo stomaco era una
fortuna, dove si doveva stare attenti ad ogni rumore, che fosse una
pattuglia di fascisti per un rastrellamento..
In questo momento
per Milton, ex studente unversitario, ex ufficiale scappato dopo l'8
settembre per entrare nelle fila dei partigiani, su un collina, la
cosa più importante è cercare la verità.
Non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto, non poteva morire senza sapere, in un'epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere. Avrebbe rinunciato a tutto per quella verità, tra quella verità e l'intelligenza del creato avrebbe optato per la prima.
Il libro, dal
secondo capitolo fino alla fine, è una continua ricerca dell'amico
Giorgio, anche lui ex studente e anche lui partigiano come Milton ma
in un'altra brigata.
“Da stasera voglio convincermi che a partire da maggio i nostri uomini potranno andare alle fiere e ai mercati come una volta, senza morire per strada. La gioventù potrà ballare all'aperto, le donne giovani resteranno incinte volentieri, e noi vecchie potremo uscire sulla nostra aia senza paura di trovarci un forestiero armato.”
Sullo sfondo della
sua ricerca, vediamo coi nostri occhi cosa sia stata la guerra di
liberazione, lontano anni luce dalla retorica: il fango che ti si
attacca ai vestiti, la pioggia che ti entra dentro come un panno, la
nebbia densa come un mare di latte e che non ti fa vedere nulla.
Nemmeno il nemico con una divisa diversa dalla tua.
Forse proprio per
la nebbia Giorgio è stato catturato da una pattuglia della San Marco
(la parte schierata con Salò) e portato ad Alba, come un trofeo,
verso una sicura morte.
Che fare?
Disobbedendo alle regole, al buon senso, alla ragione, Milton si
mette in cerca, andando nelle altre brigate, a cercare un soldato di
Salò da scambiare per Giorgio.
Ma l'inseguimento
della verità, più forte “dell'intelligenza del creato”,
sarà una corsa verso un'illusione, verso un sogno effimero. Ma forse
non è anche questo l'amore, un sogno?
Il finale, forse
lasciato senza una definitiva rifinitura dell'autore (lo scrive
Gabriele Pedullà nell'introduzione dell'edizione di Einaudi appena
uscita), è aperto, almeno io l'ho inteso tale.
C'è tutto il senso
della tragedia, in quelle righe:
Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò.
La folle corsa, le
fucilate dei fascisti, il fango in cui è immerso il corpo e il
desiderio di continuare a vivere. Continuare a vivere nonostante
l'unica speranza che lo tiene in vita forse è vana, nonostante il
tradimento dell'amico. Un romanzo cavalleresco, epico – scrive
Italo Calvino su questo romanzo, nella prefazione a “Il sentiero
dei nidi di ragno”.
La scheda del libro
sul sito di Einaudi.
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