09 maggio 2020

La notte della Repubblica e il confronto coi tempi di oggi

Immagine presa dal profilo di Simona Zecchi su FB

42 anni fa le BR facevano trovare il cadavere del presidente della DC, Aldo Moro, in via Caetani, nel centro di Roma: i 55 giorni di prigionia trovavano la conclusione con l'immagine di quel corpo piegato all'interno della Renault 4.
L'altra sera, il giornalista Andrea Purgatori nel corso della trasmissione Atlantide faceva un parallelo, secondo me un po' ardito, tra quei 55 giorni in cui le istituzioni e il paese rimasero quasi bloccate da quel rapimento, e i 55 giorni del lockdown in cui oggi il paese è rimasto bloccato.
Certo, ci sono le immagini dei controlli delle auto, le istituzioni che sembravano impotenti nell'affrontare la crisi, quel nemico invisibile che sembrava invincibile ..

Ma le similitudini si fermano qui: il rapimento di Aldo Moro (con tutti i buchi nella ricostruzione ufficiale, dall'agguato in via Fani, alla sua prigionia, la storia del falso comunicato numero sette) segnò la fine del tentativo di sbloccare il paese, politicamente, rendendo il partito comunista una reale alternativa di governo.

La fine del lockdown è solo una data sul calendario, decisa dopo tanti compromessi dal governo: sì, siamo stati in casa per tutti questi cinquanta giorni, i morti sono in diminuzione, è diminuita la pressione sugli ospedali. Ma questo nemico invisibile non è stato sconfitto: oggi abbiamo molte più informazioni su di esso, sappiamo come curarlo, è forse meno pericoloso.
Pericolosità dovuta anche all'impreparazione che avevamo agli inizi, alla sua sottovalutazione, agli errori fatti qui in Regione Lombardia (la delibera sulle RSA, il non bloccare certe zone per non intralciare gli interessi degli industriali).

Di questo virus sentiremo parlare ancora, così come il terrorismo rosso fece altre vittime negli anni successivi: alla sua fine si è arrivati perché quella scintilla che doveva bruciare la prateria, come era nelle menti di Curcio e Franceschini, per arrivare ad una rivoluzione proletaria, non prese forza.
Le istituzioni tennero, non ci furono derive autoritarie, i sindacati non persero forza, la morte dei cinque agenti della scorta fecero comprendere alle persone il vero volto, folle, dei brigatisti.

Forse, un altro parallelo di queste due storie è la forte “mediatizzazione”: il virus ha riempito le prime pagine (e giustamente) dei giornali, con messaggi spesso in contraddizione e non sempre con l'obiettivo di fare informazione.
La stesso avvenne 42 anni fa, cominciando dalla scelta delle BR con l'agguato in via Fani (Moro poteva essere rapito in modo meno cruento in altri luoghi che frequentava), con le lettere di Moro e i comunicati delle BR usati per lanciare messaggi da una parte e dall'altra.

Metteremo da parte anche il coronavirus, senza averne imparato la lezione, così come abbiamo messo da parte la vicenda Moro con tutti i misteri?

Un mistero che oggi, grazie alle rivelazioni di un pentito, non lo è più è quello della morte di Peppino Impastato: giornalista e tante altre cose che fu ucciso dalla mafia la notte del 9 maggio 1978, delitto su cui, anche per colpa di lacune investigative (o peggio) fu montato un depistaggio.
Impastato era morto mentre preparava un attentato.

Non era vero: la mafia, Tano Badalamenti, non accettava più le sue denunce contro il boss, Tano seduto, contro la giunta comunale (mafiopoli, la chiamava).

Con Aldo Moro (e in parte con Peppino Impastato), lo stato ha dimostrato di non voler processare sé stesso.
Farà lo stesso anche col coronavirus?

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