23 maggio 2020

Il sacrificio di Falcone, l'esigenza di verità

Una volta messo sull'altarino, una volta creata l'icona, poi diventa difficile riportare fatti e persone alla realtà.
Mi riferisco alla storia personale e professionale del giudice Giovanni Falcone di cui oggi ricorre l'anniversario della morte, a Capaci, l'attentatuni che lo uccise assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della sua scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo .


C'è l'icona Falcone, il giudice che lottò contro la mafia, riservato, che non parlava con la stampa, che non seguiva la cultura del sospetto.
E poi c'è la storia vera di un magistrato che, in vita, subì ogni genere di accuse, perfino da ambienti dell'antimafia (penso alle accuse del sindaco Orlando): dalle lettere del corvo che lo accusavano di usare i pentiti per fare omicidi di stato alle accuse di disturbare la quiete pubblica per il suono delle sirene della scorta.

Falcone, che viveva sotto scorta sin dall'inizio degli anni '80, quanto entrò nell'Ufficio Istruzione a Palermo (ufficio poi cancellato dalla riforma penale del 1989) doveva guardarsi le spalle da Cosa Nostra e anche dai nemici all'interno dello Stato. Bocciato al ruolo di capo ufficio Istruzione, dopo Caponnetto, bocciata la sua candidatura al CSM, bocciato al ruolo di capo della Procura Nazionale Antimafia (da lui voluta quando fu chiamato al ministero della Giustizia da Martelli).

Falcone, con Borsellino, dovette rispondere di fronte al CSM per delle sue dichiarazioni alla stampa quando, dopo il maxi processo, il famoso pool antimafia fu smantellato.
Falcone che fu accusato, davanti a milioni di italiani, da un giovane democristiano Salvatore Cuffaro al Costanzo Show, di fare indagini solo per attaccare la Democrazia Cristiana.
Indagini politiche.

Il metodo Falcone, che poi era il metodo del Pool, inventato dal giudice Chinnici (e ripreso da quanto aveva fatto Caselli a Torino contro il terrorismo), aveva per la prima volta fotografato la mafia, le dato una struttura, aveva capito il suo modo di ragionare, di prendere delle decisioni.
Aveva messo assieme tanti episodi criminali che una volta venivano giudicati singolarmente, senza riuscire a comprenderli.

Anche grazie al contributo di pentiti come Buscetta, Contorno, Mannoia (l'ala perdente di Cosa nostra, distrutta dal golpe dei corleonesi di Riina e Provenzano) il pool di Palermo portò alla sbarra e alla condanna per ergastolo, decine di mafiosi importanti.

Non solo, aveva capito il gioco grande del potere, di come dietro molti dei delitti politici avvenuti in Sicilia e a Palermo dalla fine degli anni settanta (una scia di sangue unica in Italia e al mondo) non c'era solo Cosa nostra. Gladio, massoneria, il mondo finanziari e il mondo politico.
E quelle “menti raffinatissime”capaci di colpire l'immagine di un giudice scomodo, fargli arrivare certi messaggi: i cadaveri lasciati davanti alle caserme dei carabinieri come successo al prefetto Dalla Chiesa, le lettere del corvo, l'attentato fallito all'Addaura (che si era fatto da solo, scrissero i calunniatori).

Non c'erano solo personaggi singolari come Totò Riina, il congato Bagarella, Bernardo Provenzano.
Ce lo dicono i buchi neri rimasti, a 28 anni di distanza, sulla strage di Capaci (e sulle stragi successive, da quella di via D'Amelio a quelle in continente nel 1993).
Non può essere stata la mafia a lasciare quei pizzini vicino al cratere sull'autostrada con numeri che riportano al Sisde.
Non può essere stata la mafia ad entrare nel pc di Falcone (e nel suo palmare) a cancellare i dati.
Come non può essere stata la mafia ad inventarsi il depistaggio di Stato con Scarantino.

Ancora oggi mettere in discussione la verità ufficiale su Capaci (e sulla strage in cui morirono Borsellino e la sua scorta, e sulla trattativa non più “presunta”) è fonte di notevoli polemiche.
A Capaci è stata solo la mafia, lo Stato ha vinto la sua battaglia e oggi la mafia molto meno potente.
Una verità falsa che dopo tanti annidà solo fastidio (se non peggio, facendo sollevare brutti sospetti di non voler toccare certi argomenti ancora tabù, come il rapporto mafia politica e imprenditoria).

E' un dovere dello Stato fare giustizia sulla strage di Capaci, nonostante siano passati tutti questi anni. E' un dovere nei confronti delle vittime.
E' un dovere nei confronti del paese che non può più convivere con certi segreti, zone grigie.
Zone grigie che sopravvivono ancora oggi: ce lo dice la latitanza di Messina Denaro (iniziata in quel 1992), la sua rete di prestanome, tra cui l'imprenditore Nicastri (e i suoi rapporti con Arata Sr).

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