Mi riferisco alla storia personale e
professionale del giudice Giovanni Falcone di cui oggi ricorre
l'anniversario della morte, a Capaci, l'attentatuni che lo
uccise assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della sua
scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo
.
C'è l'icona Falcone, il giudice che
lottò contro la mafia, riservato, che non parlava con la stampa, che
non seguiva la cultura del sospetto.
E poi c'è la storia vera di un
magistrato che, in vita, subì ogni genere di accuse, perfino da
ambienti dell'antimafia (penso alle accuse del sindaco Orlando):
dalle lettere del corvo che lo accusavano di usare i pentiti per fare
omicidi di stato alle accuse di disturbare la quiete pubblica per il
suono delle sirene della scorta.
Falcone, che viveva sotto scorta sin
dall'inizio degli anni '80, quanto entrò nell'Ufficio Istruzione a
Palermo (ufficio poi cancellato dalla riforma penale del 1989) doveva
guardarsi le spalle da Cosa Nostra e anche dai nemici all'interno
dello Stato. Bocciato al ruolo di capo ufficio Istruzione, dopo
Caponnetto, bocciata la sua candidatura al CSM, bocciato al ruolo di
capo della Procura Nazionale Antimafia (da lui voluta quando fu
chiamato al ministero della Giustizia da Martelli).
Falcone, con Borsellino, dovette
rispondere di fronte al CSM per delle sue dichiarazioni alla stampa
quando, dopo il maxi processo, il famoso pool antimafia fu
smantellato.
Falcone che fu accusato, davanti a
milioni di italiani, da un giovane democristiano Salvatore Cuffaro al
Costanzo Show, di fare indagini solo per attaccare la Democrazia
Cristiana.
Indagini politiche.
Il metodo Falcone, che poi era il
metodo del Pool, inventato dal giudice Chinnici (e ripreso da quanto
aveva fatto Caselli a Torino contro il terrorismo), aveva per la
prima volta fotografato la mafia, le dato una struttura, aveva capito
il suo modo di ragionare, di prendere delle decisioni.
Aveva messo assieme tanti episodi
criminali che una volta venivano giudicati singolarmente, senza
riuscire a comprenderli.
Anche grazie al contributo di pentiti
come Buscetta, Contorno, Mannoia (l'ala perdente di Cosa nostra,
distrutta dal golpe dei corleonesi di Riina e Provenzano) il pool di
Palermo portò alla sbarra e alla condanna per ergastolo, decine di
mafiosi importanti.
Non solo, aveva capito il gioco grande del potere, di come dietro molti dei delitti politici avvenuti in
Sicilia e a Palermo dalla fine degli anni settanta (una scia di
sangue unica in Italia e al mondo) non c'era solo Cosa nostra.
Gladio, massoneria, il mondo finanziari e il mondo politico.
E quelle “menti raffinatissime”capaci di colpire l'immagine di un giudice scomodo, fargli arrivare
certi messaggi: i cadaveri lasciati davanti alle caserme dei
carabinieri come successo al prefetto Dalla Chiesa, le lettere del
corvo, l'attentato fallito all'Addaura (che si era fatto da solo,
scrissero i calunniatori).
Non c'erano solo personaggi singolari
come Totò Riina, il congato Bagarella, Bernardo Provenzano.
Ce lo dicono i buchi neri rimasti, a 28
anni di distanza, sulla strage di Capaci (e sulle stragi successive,
da quella di via D'Amelio a quelle in continente nel 1993).
Non può essere stata la mafia a
lasciare quei pizzini vicino al cratere sull'autostrada con numeri
che riportano al Sisde.
Non può essere stata la mafia ad
entrare nel pc di Falcone (e nel suo palmare) a cancellare i dati.
Come non può essere stata la mafia ad
inventarsi il depistaggio di Stato con Scarantino.
Ancora oggi mettere in discussione la
verità ufficiale su Capaci (e sulla strage in cui morirono
Borsellino e la sua scorta, e sulla trattativa non più “presunta”)
è fonte di notevoli polemiche.
A Capaci è stata solo la mafia, lo
Stato ha vinto la sua battaglia e oggi la mafia molto meno potente.
Una verità falsa che dopo tanti annidà solo fastidio (se non peggio, facendo sollevare brutti sospetti
di non voler toccare certi argomenti ancora tabù, come il rapporto
mafia politica e imprenditoria).
E' un dovere dello Stato fare giustizia
sulla strage di Capaci, nonostante siano passati tutti questi anni.
E' un dovere nei confronti delle vittime.
E' un dovere nei confronti del paese
che non può più convivere con certi segreti, zone grigie.
Zone grigie che sopravvivono ancora
oggi: ce lo dice la latitanza di Messina Denaro (iniziata in quel
1992), la sua rete di prestanome, tra cui l'imprenditore Nicastri (e
i suoi rapporti con Arata Sr).
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