30 settembre 2018

Il patto sporco, Saverio Lodato e Nino Di Matteo



Il processo Stato-Mafia nel racconto di un suo protagonista

Venticinque anni di solitudine e coraggio
Dottor Di Matteo, venticinque anni di inchieste e di solitudine, di ricerca accanica della verità, di successi e di momenti di amarezza, ma anche di isolamento e di vita blindata. Un quarto di secolo, con la toga addosso, nell'Italia di oggi. Dall'età di trent'anni, a oggi che ne ha cinquantasette.Così è volata via metà della sua esistenza. Ma quando ha inizio l'incubo di una vita blindata giorno e notte? 
Il primo servizio di scorta lo ebbi nel dicembre 1993, alla procura di Caltanissetta. Ero alle prime armi. Mi avevano assegnato un processo che riguardava la guerra in corso in quegli anni fra cosa Nostra e la Stidda, nel territorio di Gela.

Comincia con questo ricordo il libro-intervista del giudice Nino Di Matteo scritto assieme al giornalista Saverio Lodato, autore di diversi saggi sulla mafia (all'inizio era “Dieci anni di mafia”, poi diventato “Venticinque anni di mafia”, fino all'ultimo "Quarant'anni di mafia" .. vedremo mai la fine?).

Il ricordo dei primi passi nella magistratura come uditore nel 1991, l'arrivo a Caltanissetta, la prima scorta, all'inizio vissuta come un cambiamento positivo, per poter lavorare in modo più sicuro.
Scorta che alla fine è diventata come una prigione, che impatta la tua vita e quella della tua famiglia: il livello di protezione si è alzato al massimo livello (“primo livello di protezione eccezionale”) dopo le ultime minacce ricevute. Mai nessun magistrato aveva subito minacce, pressioni, intimidazioni come Di Matteo (bisogna tornare indietro ai tempi di Falcone, Borsellino e al pool di Caponnetto).
Dossier, lettere anonime. E poi dover rispondere del proprio operato di fronte al CSM (per la storia delle telefonate di Mancino).
E apprendere che è già arrivato l'esplosivo per farti saltare in aria, ascoltare dalla voce di un mafioso pentito che sta per arrivare la tua ora: è quello che disse a Di Matteo Vito Galatolo, lei si è spinto troppo oltre nel suo lavoro.
Lei deve stare attento, perché noi siamo molto avanti”.

Come spiegare questo livello di minacce? La risposta sta proprio nelle parole del capomafia: il giudice Di Matteo, assieme a pochi altri magistrati, si era voluto spingere troppo oltre per portare avanti il processo sulla Trattativa Stato mafia.
Dove “oltre” ha il significato di andare oltre le verità di comodo che la politica (e anche parte del mondo del giornalismo) hanno costruito.
Tramite questo processo si voleva capire i perché delle stragi, degli incontri tra uomini in divisa e mafiosi, del perché la magistratura fosse stata tenuta all'oscuro.
Si voleva applicare il principio della legge uguale per tutti, anche per i carabinieri del Ros, per i politici, per i rispettabili signori che hanno portato avanti, negli anni tra il 1992-1994 la trattativa e commesso (direttamente o in concorso) il reato di violenza a corpo dello Stato.

Per questo, Di Matteo è un magistrato tra i meno amati dalla politica, da parte di quel giornalismo garantista (Il Foglio, Il giornale, la fu Unità, Repubblica ..) nei confronti dei potenti quando vengono chiamati davanti ad un giudice.

Questo libro serve a colmare uno squilibrio che si è venuto a creare in questi anni attorno al processo di Palermo e attorno ai magistrati che l'hanno portato avanti: leggere i vari capitoli, con le domande del giornalista e le risposte del giudice, è come ripercorre la storia della mafia in Italia, anzi la storia del rapporto mafia politica, del rapporto di cosa nostra con parte delle istituzioni.
Dallo sbarco in Sicilia degli alleati, a Portella della Ginestra, i cadaveri eccellenti che hanno insanguinato le strade di Palermo (La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa, Costa, Terranova, Chinnici), fino alle stragi della stagione eversiva di Riina e dei corleonesi.
Perché Riina scelse di fare l'attentato proprio a Capaci quando era più semplice uccidere Falcone a Roma?
Chi ha fatto sparire l'agenda elettronica di Falcone (e l'agenda rossa di Borsellino poi)?
Perché quell'accelerazione dopo Capaci, per uccidere Paolo Borsellino con un'altra autobomba?
Chi, in quei giorni, consigliava Riina su come procedere (bisogna fare la guerra per preparare la pace poi)? E chi consigliava i corleonesi (dopo la cattura di Riina nel 1993) gli obiettivi in continente per le altre bombe?

Non tutti i misteri hanno avuto una risposta.
Ma quello che ora è sempre più chiaro (e una sentenza della magistratura ha anche messo nero su banco) è che dopo la sentenza del maxi processo, dopo le condanne all'ergastolo dei capimafia, dopo che per la prima volta la Cassazione aveva ammesso l'esistenza della mafia, come struttura unitaria e verticistica, i vertici di cosa nostra decisero di regolare i conti con la politica.
Cominciando dal capocorrente DC Salvo Lima, nel marzo 1992.

Da qui si deve partire per ricostruire la trattativa politica di pezzi dello stato coi mafiosi: gli ufficiali del Ros che informarono solo alcuni esponenti del mondo politico dei loro incontri con Vito Ciancimino.
La trattativa c'è stata: ci sono stati gli incontri, le promesse, le condotte opache (la mancata perquisizione del covo di Riina, la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso), e ci sono stati anche i segnali di distensione da parte dello stato.
"Questa sentenza di primo grado certifica come la trattativa ci fu e che uomini dello Stato si resero complici con i vertici di Cosa nostra nel ricatto nei confronti di quattro diversi governi della Repubblica. Per la giustizia ci sono voluti 25 anni per affermare, con una sentenza pronunciata nel nome del popolo italiano, quello che era accaduto. Ma nel libro ci crediamo con amarezza, se quanto oggi consacrato in una sentenza dei giudici non era conosciuto ben prima, da soggetti ed ambienti della politica e delle istituzioni che invece che denunciare hanno preferito tacere, nascondere o preferito cancellare le prove di quel terribile connubio. Oggi possiamo essere soddisfatti del risultato a cui è arrivata la magistratura, ma non cancella questa soddisfazione l'amarezza della reticenza, ed oserei dire dell'omertà istituzionale, che ha caratterizzato ampi settori della politica e delle istituzioni rispetto un tema così delicato e così strettamente intersecato con quello delle stragi che hanno insanguinato la Sicilia e l'Italia intera tra il 1992 ed il 1993".


I segnali di distensione dello Stato
L'avvicendamento a capo del DAP di Niccolò Amato con Adalberto Capriotti e col vice Francesco Di Maggio (avvicendamento in cui un ruolo determinante lo ebbe il presidente Scalfaro).
Il siluramento di Scotti al ministero dell'Interno, sostituito da Mancino (il ministro che non si ricordava dell'incontro con Borsellino, che da privato cittadino chiedeva protezione al presidente Napolitano, ai vertici della Cassazione).
L'avvicendamento al ministero della Giustizia di Martelli con Conso, il magistrato che, in solitudine, decise di non prorogare i 41 bis. Come segnale di distensione da parte dello Stato, dopo le bombe a Firenze e a Milano e a Roma.
Segnali che hanno avuto delle controrisposte da parte di cosa nostra, come indicherebbe la convergenza dei voti mafiosi dalle leghe del sud al nuovo partito fondato dal paesano Dell'Utri e da Berlusconi, quello di Canale 5.

Il processo si doveva fare proprio per fare luce su tutti questi punti, per porre fine alle troppe menzogne che si sono sentite: la trattativa non ha salvato vite umane, per esempio non ha salvato le persone morte a Firenze, a Milano, le persone della scorta di Borsellino.
Tutto questo – sottolinea il magistrato siciliano – lo affermano i giudici sulla base di prove granitiche, con una conseguenza terribile nella sua cruda semplicità: la Trattativa, la manifestata disponibilità al dialogo con la mafia, il cedimento di una parte dello Stato, rafforzarono in Riina e nei suoi seguaci il convincimento che la scelta di attaccare frontalmente le istituzioni – a suon di bombe, ricatti e richieste – era quella giusta. Serviva a costringere definitivamente alla resa uno Stato che aveva già iniziato a piegare le ginocchia. La Trattativa non evitò altro sangue. Lo provocò. Con altre stragi, a partire da quella di via d’Amelio, che muovevano dalla logica di intimorire ancora di più l’interlocutore istituzionale, la controparte di un dialogo scellerato e segreto”.

La trattativa non è servita a combattere definitivamente la mafia: consegnati nelle mani dello Stato la bassa manovalanza, l'ala militare attorno a Riina, il controllo di cosa nostra passò all'ala moderata di Provenzano, fino alla sua cattura nel 2006.
I giudici del processo non hanno perseguito il reato di “trattativa”, che nemmeno esiste, ma il reato di violenza a corpo dello Stato: aver indotto i governi, da quello Amato a quello Berlusconi compreso, a portare avanti delle politiche che interessavano cosa nostra.
Politiche per arginare l'ondata dei pentiti, per arginare la carcerazione preventiva, far chiudere le super carceri.

Nel libro il giudice Di Matteo ricorda anche una delle fase più delicate: quando furono intercettare le telefonate dell'ex ministro Mancino, tra queste quelle con Loris D'Ambrosio e col presidente Napolitano.
Il fuoco che si aprì contro la procura di Palermo, rea di aver osato intercettare il presidente (cosa falsa), contro Di Matteo accusato di aver rivelato il contenuto delle telefonate (cosa falsa, poiché la notizia era già uscita su alcuni giornali).
Cosa intendeva dire, l'ex magistrato D'Ambrosio al telefono quando esprimeva a Mancino i suoi timori, di essere stato “un inutile scriba di segreti indicibili”?

Il re è nudo, si dicono Lodato e Di Matteo:
Ormai il Re è nudo” scrive Lodato mentre introduce il tema della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. “Il Re era nudo da tempo – replica Di Matteo -. Ma nessuno voleva vederlo. I fatti, i personaggi, le solite manine che hanno accompagnato, e in certi casi diretto dall’esterno sia la mafia sia il terrorismo in questo Paese, erano perfettamente individuabili. Ma nessuno voleva trarne le dovute conseguenze. Non si volevano delineare responsabilità politiche, istituzionali, storiche, che avrebbero potuto precedere e prescindere dalla responsabilità penale di soggetti determinati”.

Mentre in Italia si moriva sotto le bombe, qualcuno nello Stato trattava: questa la storia che non andava raccontata, portata alla luce.
Quegli anni dovevano essere sepolti sotto la verità di comodo di una mafia distrutta e di una battaglia vinta dallo Stato.
Ma non è così: quei segreti, quei ricatti, quel do ut des tra mafia e politica (“un gioco di specchi”) ha degli effetti ancora sul presente.
E' servito il processo (e le rivelazioni di Spatuzza, e le carte di Massimo Ciancimino) per far tornare la memoria ai protagonisti di quegli anni: Liliana Ferraro, Martelli, Violante ..

Le 5252 pagine della sentenza

Le ultime due parti del libro sono forse ancora più importanti del dialogo intervista tra giudice e giornalista: c'è un riassunto delle 5252 pagine della sentenza depositata a luglio 2018, dove si mettono nero su bianco le responsabilità, gli episodi, le date: a futura memoria per il paese ma soprattutto per i negazionisti (Scalfari, Fiandaca, Padovani, Deaglio..) della trattativa, non più presunta.
Tutto questo – sottolinea il magistrato siciliano – lo affermano i giudici sulla base di prove granitiche, con una conseguenza terribile nella sua cruda semplicità: la Trattativa, la manifestata disponibilità al dialogo con la mafia, il cedimento di una parte dello Stato, rafforzarono in Riina e nei suoi seguaci il convincimento che la scelta di attaccare frontalmente le istituzioni – a suon di bombe, ricatti e richieste – era quella giusta. Serviva a costringere definitivamente alla resa uno Stato che aveva già iniziato a piegare le ginocchia. La Trattativa non evitò altro sangue. Lo provocò. Con altre stragi, a partire da quella di via d’Amelio, che muovevano dalla logica di intimorire ancora di più l’interlocutore istituzionale, la controparte di un dialogo scellerato e segreto”.

Lasciatecelo dire

L'ultimo capitolo è una raccolta di articoli pubblicato da Saverio Lodato su Antimafiaduemila e pubblicato nel libro “Avanti mafia”, con un'ironia molto amara: sono articoli scritti in questi ultimi anni e che toccano alcuni punti già discussi nel libro
- le occasioni mancate per sconfiggere la mafia
- le telefonate di Mancino e gli “indicibili accordi”
- “Quarant'anni di Stato-mafia emafia-stato?”: dove si pone il confine tra Stato e mafia; perché con le BR si è attuata la linea della fermezza mente con la mafia si è scelto di trattare?
- “Il nuovo anno di un condannato a morte”: il silenzio nei confronti del giudice di Matteo (da parte del governo Renzi); la trappola dentro la proposta di andare a Roma alla DNA (Direzione nazionale antimafia) senza passare per un concorso.
- “Chi sono loro? E chi siamo noi?”: loro sono quelli che lodano i magistrati morti, dell'antimafia di facciata.

Altri articoli
- Il dossier sul processo di Palermo sul sito di Antimafiaduemila

La scheda del libro sul sito di Chiarelettere
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon


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