19 febbraio 2017

La natura di Patre carnazza - da La mossa del cavallo

La mossa del cavallo: l'incipit 
"Dominivobisco." 
"Etticummi spiri totò" risposero una decina di voci sperse nello scuro profondo della chiesa, rado rado punteggiato da qualche lumino e da cannìle di grasso fetente.
"Itivìnni, la missa è."
 
Ci fu una rumorata di seggie smosse, la prima messa del matino era finita. Una fìmmina ebbe una botta di tosse, patre Artemio Carnazza fece una mezza inginocchiata davanti all'altare maggiore, scomparse di prescia nella sacrestia dove il sacrestano, morto di sonno com'era sempre, l'aspettava per aiutarlo a spogliarsi dai paramenti. I fedeli abituali della prima messa lasciarono tutti la chiesa, cizziòn fatta di Donna Trisìna Cìcero, la fìmmina che aveva tussiculiàto, la quale se ne ristò in ginocchio, sprofondata nella preghiera. 
Donna Trisìna s'appresentava alla prima messa da una quindicina di matine, non era difatti canosciuta come chiesastrica, in chiesa compariva solamente la domenica e le sante feste comannàte. Si vede che le era capitato di fare piccàto e ora voleva farsi pirdonare dal Signiruzzo. Donna Trisìna era una trentina mora, con gli occhi verdi sparluccicanti e due labbra rosse come le fiamme dell'inferno. Mischineddra, era rimasta vìdova da tre anni. Da allora si vistiva tutta di nìvuro, a lutto stretto, lo stesso però gli òmini quando che la vedevano passare facevano cattivi pinsèri, tanta grazia di Dio senza che ci fosse un màscolo a governarla. Ma in paìsi c'era chi sosteneva che quel campo era stato invece arato e abbondantemente seminato da almeno due volonterosi: l'avvocato don Gregorio Fasùlo e il fratello del delegato, Gnazio Spampinato. 
Donna Trisìna aspettò che il sacrestano se ne niscisse dalla chiesa, poi si fece la croce, si susì e s'avviò verso la sacristìa. Trasì cautelosa. La luce primentìa del giorno le bastò per assicurarsi che nel locale non c'era anima criàta. Proprio allato al grande armuàr di pscipàino dove stavano i paramenti, una porticina s'apriva su una scala di legno che portava al quartino in dove che il parrino ci aveva abitazione. 
Patre Artemio Carnazza era un omo che stava a mezzo tra la quarantina e la cinquantina, rosciano, stacciùto, amava mangiari e bìviri. Con animo cristiano era sempre pronto a prestare dinaro ai bisognevoli e doppo, con animo pagano, si faceva tornare narrè il doppio e macari il triplo di quello che aveva sborsato. Soprattutto, padre Carnazza amava la natura. Non quella degli aciddruzzi, delle picorelle, degli àrboli, delle arbe e dei tramonti, anzi di quel tipo di natura egli altissimamente se ne stracatafotteva. Quella che a lui lo faceva nèsciri pazzo era la natura della fìmmina che, nella sua infinita varietà, stava a cantare le lodi alla fantasia del Criatore: ora nìvura come l'inca, ora rossa come il foco, ora bionda come la spica del frumento, ma sempre con sfumature di colore diverse, con l'erbuzza una volta alta che sontuosamente oscillava al soffio del suo fiato, un'altra volta corta corta come appena falciata, un'altra volta ancora fitta e intrecciata come un cespuglio spinoso e sarvaggio. Sempre si maravigliava quanno che ne vedeva una nova, perché nova novissima era veramente con tutto il suo particulare da scoprire, da percorrere centilimetro appresso centilimetro fino alla grotticella càvuda e ùmita dintra alla quale trasìre a lento a lento, adascio, che doppo era la grotticella istessa ad afferrarti stretto, a inserrarti le sue pareti intorno, a portarti fino al fondo più fondo in dove che stimpagna l'acqua di vita.
Da La mossa del Cavallo, Andrea Camilleri, Sellerio editore 

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