Le prime righe
"Dominivobisco."
"Etticummi spiri totò" risposero una decina di voci sperse nello scuro profondo della chiesa, rado rado punteggiato da qualche lumino e da cannìle di grasso fetente.
"Itivìnni, la missa è."
Ci fu una rumorata di seggie smosse, la prima messa del matino era finita. Una fìmmina ebbe una botta di tosse, patre Artemio Carnazza fece una mezza inginocchiata davanti all'altare maggiore, scomparse di prescia nella sacrestia dove il sacrestano, morto di sonno com'era sempre, l'aspettava per aiutarlo a spogliarsi dai paramenti. I fedeli abituali della prima messa lasciarono tutti la chiesa, cizziòn fatta di Donna Trisìna Cìcero, la fìmmina che aveva tussiculiàto, la quale se ne ristò in ginocchio, sprofondata nella preghiera.
Donna Trisìna s'appresentava alla prima messa da una quindicina di matine, non era difatti canosciuta come chiesastrica, in chiesa compariva solamente la domenica e le sante feste comannàte. Si vede che le era capitato di fare piccàto e ora voleva farsi pirdonare dal Signiruzzo. Donna Trisìna era una trentina mora, con gli occhi verdi sparluccicanti e due labbra rosse come le fiamme dell'inferno. Mischineddra, era rimasta vìdova da tre anni. Da allora si vistiva tutta di nìvuro, a lutto stretto, lo stesso però gli òmini quando che la vedevano passare facevano cattivi pinsèri, tanta grazia di Dio senza che ci fosse un màscolo a governarla. Ma in paìsi c'era chi sosteneva che quel campo era stato invece arato e abbondantemente seminato da almeno due volonterosi: l'avvocato don Gregorio Fasùlo e il fratello del delegato, Gnazio Spampinato.
Nelle note a fine libro, Camilleri
racconta che l'ispirazione a questo romanzo (pubblicato per la prima
volta da Rizzoli) è arrivata leggendo la cronaca di un delitto
realmente avvenuto:
«A Barrafranca furono tirate due fucilate a un prete ricco, corrotto, prepotente, odiatissimo in paese. Circa 60 metri lontano dal luogo dove cadde il prete stava un torinese venuto in Sicilia come ispettore di molini. Questi voltava la schiena al prete. Al rumore delle fucilate si voltò e corse verso il prete il quale, prima di morire, gli disse: 'M'ha assassinato il tale, mio cugino'. Il torinese montò a cavallo e corse al paese a raccontare il fatto alla stazione dei Carabinieri, sulla strada a tutti raccontava l'assassinio e la rivelazione dell'assassino. Il prete aveva da 12 anni una lite col cugino che l'assassinò, c'era tra loro forte inimicizia; 24 ore dopo era stato arrestato come presunto autore dell'assassinio il torinese stesso e fra i testimoni a suo carico era il cugino stesso assassino del prete e tutto il processo s'informava su questa via mentre il paese intero e i comuni circonvicini diceva sotto sotto chi era l'assassino" »...
L'episodio è
citato nel libro “Politica e mafia in Sicilia” di Leopoldo
Franchetti, del 1876: una farsa tragica su cui l'autore ha
imbastito il suo romanzo, utile per raccontare il “contesto”
di quella Sicilia post unitaria.
La connivenza tra
il mafioso locale e i deputati a Roma trattati come pupi; la
burocrazia piemontese dentro cui nascondere le inefficienze e le
storture di un'amministrazione lontana anni luce da una popolazione
in parte analfabeta; un clero più interessato ai problemi terreni (e
alla natura femminina, nel caso del personaggio
di parte Carnazza) che non all'anima delle persone e alla difesa
dei più deboli; un'aristocrazia debosciata e un popolino assuefatto
ai soprusi, alla corruzione, all'assenza di una giustizia e ad una
legge uguale per tutti ..
In questo contesto,
il 2 settembre 1877 piomba il capo ispettore ai Mulini Giovanni
Bovara, nato a Vigata ma cresciuto a Genova e mandato qui dal
ministero per far luce su alcuni sospetti di corruzione e sulla morte
dei due ispettori che ricoprivano il suo lavoro prima di lui.
Fin dai primi
istanti, dai suoi pensieri (in dialetto genovese stretto) cogliamo la
distanza tra dal suo mondo a quello vigatese in cui deve lavorare:
le carte (dei mulini nella provincia di Montelusa) lasciate
incustodite nell'ufficio, il grande disordine, la sensazione che i
suoi sottoispettori non eseguano i controlli come dovrebbero e che
per questo i suoi predecessori sono stati uccisi (in circostanze
strane).
Sono gli anni
dell'odiosa tassa sul macinato, che tanta rabbia aveva
suscitato sull'isola e tanta ribellione.
Una tassa
fortemente evasa e sul cui controllo si estende l'ombra della
corruzione.
Man mano, Giovanni
prende confidenza con l'universo montelusano dove tutti hanno una
'giuria, un soprannome affibbiato dal popolo per un difetto fisico o
nel carattere: il suo superiore, il commendator La Pergola è
chiamato “Scrafagno merdarolo” perché uso ad appallottolare e "interrare" le mazzette riscosse:
Lo “scrafaglio merdarolo” di nome scientifico si viene a chiamare “scarabeus sacer”, ma di sacro non ha proprio niente, tiene l’abitudine di fare pallottuzze di merda, d’omo o d’armàlo non ha importanza, che poi se le rotola infino alla tana, gliservono per mangiarsele mentre che c’è l’invernata. I montelusani, che avevano la particolarità d’assegnare la giusta ‘ngiuria a ogni persona che gli veniva a tiro, avevano di subito chiamato “scrafaglio merdarolo” l’intendente di Finanza La Pergola commendator Felice il quale, a stare a quanto si contava, appena gli veniva passata la mazzetta, rapidamente l’appallotolava e se la metteva in sacchetta per andarsela a nascondere in casa, dato che non risultava avesse deposito di dinaro in nisciuna delle due banche di città. Tra le tante pallottuzze di merda che l’intendente si era intanato nei cinque anni di servizio a Montelusa, le più grosse e sostanziose erano state quelle fornite prima dall’ispettore capo ai mulini Tuttobene Gerlando, scomparso in mare durante una solitaria partita di pesca e mai più ritornato a riva, e doppo dal suo successore Bendicò Filiberto, questo sì ritrovato, ma dintra a un vallone e mezzo mangiato dai cani.
C'è poi il parrino
del paese, amante della natura fimminina e pure usuraio.
Il cugino del
prete, Memé Moro, con cui ha una controversia legale per una
eredità.
La “vidova”
Trisìna Cìcero, avida delle cose altrui, bella e fatalmente
consolata dai maschi del paese, parrino compreso.
Ci sono anche
personaggi più pericolosi: come l'avvocato Fasulo, braccio destro
del capo mafia don Cocò Afflitto, che viene descritto come una
vipera, che ha fatto “tana” dentro le carte più compromettenti
lasciate dentro l'ufficio di Bovara.
Giovane, onesto e incorruttibile,
Bovara inizia un suo giro di ispezioni per i mulini della provincia,
denunciando al superiore e al procuratore del Re (il piemontese
Rebaudengo) i sospetti sulla corruzione dei suoi sottoposti
(descritti come personaggi da circo equestre, nani o persone dai
tratti scimmieschi).
In uno di questi giri si imbatte in
parte Carnazza, morente per un colpo di pistola:
«Mo...ro mo...ro cu...scinu... Fu... fu... moro... cuscinu»
«Vuole un cuscino?» gli spiò (chiese) Giovanni intordonuto
«Ffffff.... aaaaaa... nnnnnn... cu... lo...» disse il parrino lasciandogli la mano. Chiuse gli occhi, piegò la testa e morì.
Il contesto, che fino a quel momento si
era mosso per contenere le mosse del Bovara, sfrutta l'omicidio del
parrino per fare la sua mossa, come in una partita a scacchi.
Regista di questa operazione don Cocò:
viene spostato il corpo del prete, falsificate le testimonianze dei
contadini che Bovara ha incontrato, le indagini vengono indirizzate
affinché il delitto di parte Carnazza si trasformi nell'ennesimo
delitto passionale, comune nell'isola.
Delitto di cui viene incolpato Bovara,
la cui deposizione, con le parole del prete morente, viene capovolta
contro di lui:
« … A un certo momento, tenendomi una mano (la vittima n.d.r.) articolò con difficoltà: 'Moro... moro... fu moro... cuscino’. Questo l'ho inteso perfettamente.»
«Vossia sa dirmi che significa dalle nostre parti la parola moro?»«Uno scuro di pelle.»
«Solo questo?»
«No, anche un moro vero, un arabo.»
«E basta?»
«Be', vuol dire anche muoio.»
«Lo vede quanto ce ne vuole prima che moro addiventi un cognome? »
Bovara, nella cella del delegato,
decide la sua contromossa in questa partita: la mossa del cavallo.
Come saprete, negli scacchi “il
cavallo è l'unico pezzo del gioco che può scavalcare gli altri”
(dal manuale del campione Karpov): decide di combattere i suoi
avversari usando la loro stessa arma del dialetto, immergendosi nella
loro mentalità sparigliando le carte, tirando in ballo tutti:
Secondo lei dunque il prete avrebbe fatto i nomi di Spampanato e Moro?
Di Spampinatu, di Moru e di…
Vada avanti. Perché si è fermato?
Pirchì ora veni u bottu grossu. Una bumma. Una cannonata. U parrinu fici un terzu nomu, non mi mandò a fare ‘n culu.
Faccia questo nome.
Fasùlo. Non “fa’ ‘n culo”.
Suvvia non scherziamo.
Non sto babbianno, signor giudice. Ci ho ragionato sopra doppo che il signor La Manta m’ebbe spiegatu come funziona u nostru dialettu. Chiarissimamente patre Carnazza disse “ulo” . Cognome. Se avesse voluto dire culu, avrebbe detto “ulu”. E semplici.
Si rende conto di quello che dice? Lei vuole alludere all’avvocato Fasùlo?
Io non alludo, riferisco. E a pinsàricci bonu, nun è una pazzia ca il parrinu facissi questo nome. ..
Mentre
assistiamo a questa partita a scacchi, ce n'è un'altra, che si gioca
però a più alto livello.
Gli
amici del boss, che a costui devono un posto, i voti presi per
entrare in parlamento, si muovono per bloccare l'inchiesta prima che
l'intreccio criminale venga scoperto, ovvero che la proprietà dei
mulini, come di altre società (e dei giornali), è nelle mani delle
stesse persone.
Contro
il procuratore della Repubblica e contro l'ispettore Bovara principia
una campagna diffamatoria (la macchina del fango non è un'invenzione
dei tempi moderni) sui giornali degli amici.
La
mossa del cavallo porterà i suoi risultati.
Il
procuratore sostituito con uno nuovo, con “doti di più alto
equilibrio”.
Bovara
viene messo in licenza “sarebbe imbarazzante per tutti se lei
domani venisse in Intendenza ...”
Scongiurato il rischio che una ventata
di giustizia spazzasse via abusi, soprusi, corrotti e corruttori,
mafiosi e amici, il finale lascia spazio al mondo dei sogni: “Siamo
fatti della stessa materia dei sogni” ha scritto Shakespeare e i
protagonisti del romanzo, nei sogni riportano la loro vera natura.
Bovara che sogna di essere su una nave,
mentre lascia la Sicilia citando le parole di Sciascia (“mi ci
romperò la testa”).
L'avvocato Fasulo che sogna di essere
sparato.
L'intendente di Finanza La Pergola che
sogna di trasformarsi in un “laidu scrafagnu”.
Il procuratore Pintacuda, bloccato
nella sua indagine, che sogna di trovarsi in mezzo alla battaglia,
senza ordini, costretto ad aspettare.
Un omaggio ai grandi della letteratura,
Sciascia, Hemingway, Hammett, a Faulkner, Kafka ..
La scheda del libro su Sellerio
e sul sito Vigata.org
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