Milano 1952.
Mariangela Marangon era proprio una gran bella ragazza. Pensate a un viso dall’ovale perfetto, illuminato da stupendi occhi nocciola da cerbiatto, incorniciato da lunghi, setosi capelli biondo cenere. E, sotto un bel naso dal profilo greco, il capolavoro di una bocca dalle labbra morbide e carnose, caratterizzate da un’imbronciatura naturale che le conferiva un’espressione al contempo capricciosa e sensuale. Alla Brigitte Bardot, per intenderci. A completare l’opera, un fisico mozzafiato: un metro e settanta di altezza e una serie di curve messe nei punti giusti, che provocavano più di un torcicollo al pubblico maschile quando la ragazza passeggiava per le strade di Milano.
Alle otto e un quarto di una calda mattina del luglio 1952, Mariangela procedeva con passo svelto ed elastico lungo via Brera, diretta verso il suo posto di lavoro, lo studio pubblicitario Le Idee, situato in un signorile palazzo della stessa via, circa a metà strada fra piazza della Scala e la sede del Corriere della Sera in via Solferino, nel bel mezzo del quartiere artistico e intellettuale milanese.
Uno studio pubblicitario, all’epoca, era solo un lontanissimo parente delle rutilanti agenzie che, a partire dalla fine degli anni ’60, soprattutto grazie all’arrivo delle multinazionali americane, avrebbero caratterizzato il panorama della comunicazione commerciale in Italia. La televisione non era ancora nata, e gli sforzi dei creativi si concentravano soprattutto su manifesti, stampa e radio.[..]Salutato il sussiegoso portiere, elegante nella sua divisa con tanto di alamari completata da un degno copricapo, la ragazza raggiunse lo studio, al primo piano, preparandosi ad aprire con le sue chiavi personali, visto che a quell’ora probabilmente dentro non c’era ancora nessuno. Infatti, tutte le stanze erano vuote, tranne quella di Osvaldo Verga, la cui porta era spalancata, rivelando un marasma di fogli e oggetti sparsi qua e là, certamente provenienti dai cassetti, anch’essi in terra, completamente svuotati. Seduto alla scrivania, piegato in avanti quasi stesse dormendo, stava il corpo del titolare dello studio. Un esame più approfondito avrebbe rivelato, in corrispondenza della tempia sinistra, un vistoso squarcio con sangue ormai coagulato, che imbrattava anche il petto e le maniche della camicia. Mariangela toccò leggermente la spalla dell’uomo, ma non ottenne alcuna reazione e, accortasi del mare di sangue, cacciò un urlo terrificante, uscì e si precipitò giù dalle scale per raggiungere la portineria. Osvaldo Verga era morto.
Come
nei precedenti due romanzi dello stesso autore, siamo a Milano in una
calda estate del 1952: nel paese si sta discutendo della nuova legge
elettorale (quella passata alla storia come legge truffa),
l'embrione dell'Europa unita stava nascendo grazie agli accordi della
Ceca (comunità Europa carbone e acciaio) , Bartali
tentava il bis al tour de France..
E in uno studio in via
Brera, anche allora ritrovo di artisti (nel famoso bar Giamaica),
viene ritrovato il cadavere del direttore di uno studio
pubblicitario, da una sua assistente. La bella Mariangela, di
cui si parla nell'incipit. Tecnicamente se ne dovrebbe occupare il
commissariato di zona, ma il vicequestore Respighi, superiore
di Arrigoni, incarica quest'ultimo di seguire il caso, confidando nel
suo buon fiuto e nelle sue capacità investigative.
Un po' urtato
per il dover gestire un nuovo caso, pure in una zona non di sua
competenza, ma anche lusingato per il giudizio del suo superiore
(“non c'è nessun altro che possa occuparsi con la necessaria
competenza e abilità di un caso di omicidio come questo.”), il
commissario capo Mario Arrigoni, assieme all'agente Ciro De
Pasquale, inizia le sue indagini.
Indagini che si rivolgono,
prima di tutto, al mondo interno allo studio: prima di tutte, la
signorina Maragon, con cui il titolare dello studio aveva una
relazione, poi finita.
E poi gli altri colleghi: la contabile, il
ragioniere, una disegnatrice, un pittore, il bozzettista.
Tutti
raccontano più o meno le stesse cose: della relazione tra il Verga
e la Marangon (che pure era finita, con uno strascico di
scenate), che lo studio ultimamente non navigava in buone acque,
finanziariamente e, infine, della passione del morto per il gioco.
Non solo il gioco della Pelota (importato in Italia dai paesi
baschi), ma anche le scommesse sulle partite e nei Casinò.
Queste
ultime pure confermate dalla vedova, che era a conoscenza dei
tradimenti del marito e degli altri suoi vizi. Insomma una vita piena
di ombre e non solo di luci.
Tutte informazioni utili, ma che
non portano gli investigatori su nessuna buona strada. Inutile anche
l'incontro con la proprietaria dello stabile, una ricca e altera
nobile, al secolo la contessa Leonella Mascheroni Monti. Una di
quelle signore che vedono il mondo dall'alto (dei suoi soldi e dei
titoli) verso il basso. Commissario di polizia compreso.
L'indagine
di arresta: “la polizia brancola nel buio” si dice in
questi casi, e i giornalisti lo scrivono pure sui giornali.
Perché,
come ripete a se stesso il commissario, le prove “non sempre te
le trovi sotto il tavolo, servite calde calde come un piatto di
risotto in trattoria”, “e allora ti devi arrangiare facendo
parlare, suscitando reazioni nella gente che ti siede di fronte: una
impercettibile contraddizione, una frase sfuggita, uno sguardo
obliquo, un rossore improvviso, prendine nota e ti troverai forse tra
le mani un indizio per far procedere l'inchiesta nella giusta
direzione”.
Anche il racconto, a questo punto, è come
se si prendesse una piccola pausa.
Seguendo il felice fine
settimana estivo del commissario Arrigoni, in visita alla sua
famiglia in quel di Canzo. Una bella cittadina sulle prealpi,
in provincia di Como, metà allora (come oggi) dei vacanzieri
milanesi, in cerca di riposo e frescura. Possiamo non ricordare la
splendida Villa Rizzoli? I Nocciolini di Canzo (il dolce tipico
servito nei due caffè del paese, il Ponti e il Citterio)? No che non
possiamo, e nemmeno l'autore se ne esime.
La pausa sui monti,
assieme alla famiglia, è foriera di buoni sviluppi. Assieme ai suoi
collaboratori, il vice Mastrantonio e l'agente De Pasquale, trova la
pista giusta per risalire ai perché della morte. Seguendo la scia
dei soldi: se l'agenzia aveva problemi finanziari, come si poteva
permettere il titolare un'auto nuova fiammante? E i soldi per le
scommesse?
Le motivazioni del delitto e le prove che portano
all'assassino, arriveranno solo alle ultime pagine della storia
…
“Questo caso .. fin dall'inizio si prospettava difficile, senza indizi, né tanto meno possibili prove, nessun arma del delitto, moventi deboli o inesistenti .. non un serio candidato al ruolo di colpevole. La chiave di volta, partita dal vizio del gioco e la passione per le belle macchine , è stata la scoperta della inspiegabile quanto continua disponibilità di danaro da parte di una persona la cui attività lavorativa era prossima al fallimento”.
La scheda del libro sul sito di Frilli
editori.
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Technorati: Dario
Crapanzano
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