Il 9 maggio 1978, annunciato da una telefonata del brigatista Morucci al professore Trinca, viene trovato il cadavere del presidente della DC Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 lasciata in via Caetani. E’ una strada a metà tra la sede della DC e quella del PCI, nel centro di Roma, in una zona simbolica, vicina al circo dei gladiatori dell’antica Roma.
È l’epilogo del sequestro di Aldo Moro avvenuto 55 giorni prima, con l’agguato in via Fani in cui le Brigate Rosse dimostrarono tutta la loro “geometrica potenza”.
L’agguato in via Fani a Moro e alla scorta, il sequestro e la sua prigionia, i comunicati (veri e falsi), la morte del presidente Moro (e quelle successive di altri personaggi legati alla vicenda), la caccia al memoriale contenente gli interrogatori e le sue dichiarazioni all’interno della prigione del popolo, sono parte di un mistero che si trascina da più di 40 anni. Il delitto Moro, o il caso Moro, costituiscono sia uno dei misteri d’Italia, per i troppi punti aperti, sia uno spartiacque per la nostra politica.
Sui misteri, è
uscito ieri un articolo sul Fatto Quotidiano a firma Gianni
Barbacetto “Mafia,
’ndrine, Gladio: tutti i punti oscuri del caso Moro”: di
fatto la verità che è arrivata a noi di quegli eventi (che lo
storico De Lutiis aveva definito
Il Golpe di via Fani, per la sua importanza) derivano
dalle dichiarazioni dei brigatisti, sebbene piene di incongruenze
e lacune. Quanti erano gli uomini del commando? Dove
è stato detenuto Moro (solo nel covo di via Montalcini?)? Come
mai Moretti, il leader delle BR, aveva il suo covo in via Gradoli (in
un palazzo dove molti appartamenti erano di proprietà di una società
del Sisde? Come
mai le BR non pubblicarono direttamente il memoriale
come avevano promesso in uno dei primi comunicati?
E poi, altre
domande: ci sono state interferenze esterne sulla gestione del
sequestro? La politica di Moro, il compromesso storico col partito
comunista, l’avvicinamento di quest’ultimo nell’area di governo
(non l’ingresso al governo) davano fastidio ad entrambi i blocchi,
quello sovietico che temeva che altri paesi avrebbero preso l’esempio
dell’Italia per arrivare ad un “eurocomunismo” sempre più
staccato da Mosca. E dava fastidio anche a Washington: Moro aveva già
ricevuto minacce (più o meno velate) dall’amministrazione Nixon,
per il suo atteggiamento nei confronti delle sinistro. Nei giorni del
sequestro arrivo dagli Stati Uniti il consulente Steve Pieczenick col
compito (come ammise anni dopo) di far fallire qualunque trattativa
tra lo Stato e le BR. L’unica linea doveva essere la linea dura,
anche gettando ombre sulla salute mentale di Moro nella prigionia.
E Peppino Impastato cosa c’entra in questa storia? Poco, forse, o forse c’entra tanto: il suo omicidio, avvenuta nella notte tra il giorno 8 e il 9 maggio 1978, fu oscurato dal ritrovamento del corpo dell’onorevole morto, certamente quest’ultima notizia aveva maggiore rilevanza nazionale. Ma il suo omicidio non solo fu oscurato: le indagini dei carabinieri, gestite dall’allora capitano Subranni che successivamente entrerà nel Ros (venendo anche coinvolto nelle indagini sulla trattativa), puntarono sulla pista dell’incidente. Secondo la ricostruzione falsa, Peppino Impastato era morto mentre preparava un attentato sulla linea ferroviaria.
Non era vero: la sua morte fu decisa dal boss di Cinisi, Tano Badalamenti, la cui abitazione distava 100 passi da quella degli Impastato, perché Peppino con le sue trasmissioni radiofoniche raccontava delle malefatte dentro il maficidio di Cinisi (il municipio infiltrato dai mafiosi), prendendolo in giro.
La storia di Peppino parla del rapporto stato mafia, delle penetrazioni di quest’ultima dentro le istituzioni, ma anche di come la mafia non sia un male incurabile: gli Impastato erano una famiglia legata alla mafia, ma Peppino riuscì a rimanerne fuori, facendo della lotta agli affari sporchi di cosa nostra (gli appalti pilotati, il traffico di droga) la sua missione di vita.
Sono morti a distanza di poche ore, il presidente che voleva sbloccare il quadro politico ingessato dagli accordi di Yalta e quel piccolo attivista siciliano che aveva sfidato la mafia. Ma le loro storie vanno ricordate, come un nodo al fazzoletto, perché la storia del nostro paese è anche la loro. Un paese a sovranità limitata, dove la verità giudiziaria, su Moro e Impastato, è stata superata dalla verità storica, che ancora oggi per molti aspetti è un tabù che non si può raccontare.
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