29 novembre 2009

Come mi batte forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi

Dunque ci sei? Dritto dall'attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c'è fine al mio stupore, al mio tacere.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.
WISLAWA SZYMBORSKA, Ogni caso

Il viaggio della figlia alla riscoperta del padre Walter Tobagi, giornalista, ucciso da un commando di terroristi rossi, proprio perchè giornalista capace.
Chi era, cosa scriveva, come aveva vissuto, come era cresciuto questo padre, così noto da adombrare con la sua presenza anche la figlia (che diventava sempre la figlia di Tobagi)?
Benedetta Tobagi lo racconta in questo bello, tragico e al tempo stesso delicato libro. Lasciate perdere queste poche righe: vi invito tutti a sfogliare le pagine e percorrere con l'autrice il percorso che ci riporta il valore umano e professionale di Walter Tobagi. Spogliato, come quell'Ettore di fronte al piccolo Astianatte, dall'elmo di eroe epico.
Un libro che si inserisce in quel filone delle memorie dei figli delle vittime del terrorismo, troppo spesso vittime anche loro nel silenzio.
Penso al bel libro di Mario Calabresi, al libro di Sabina Rossa, di Umberto Ambrosoli: e ora Benedetta.
Libri che ribaltano la visione degli anni di piombo, troppo spesso raccontati tramite le meorie dei carnefici e non delle vittime. Benedetta non accetta la teoria della “guerra civile”, usata dai terroristi (di entrambi i colori). Tesi assolutoria, che tende a dare l'immagine del brigatista che ha ucciso sì, ma per alti ideali di una lotta. Il brigatista rivoluzionario, il brigatista coraggioso: tutto falso.
Che coraggio possono aver dimostrato le persone come Marco Barbone, Corrado Alunni (il suo maestro), Marco Donat Cattin, Sergio Segio quando hanno sparato magari alle spalle a Walter Tobagi, a Guido Galli, a Emilio Alessandrini e a Guido Rossa?

Uccisi proprio perchè sapevano fare bene il proprio lavoro: perchè dimostravano ogni giorno, con le loro dee e con il loro impegno che lo Stato non era un nemico da abbattere, ma una istituzione capace di funzionare.
Una guerra, sì ma una guerra asimmetrica, contro cittadini inermi, indifesi.

Ma a questo si arriva con calma: nei primi capitoli si racconta del “popularis”, figlio di genitori emigrati da Spoleto verso Milano, per trovare un futuro migliore. In una pagina si spiega l'origine del nome Walter dato al figlio, e di come nonno Ulderico sia riuscito a salvarsi dai tedeschi.
Prima liceale al Parini, l'esperienza con la Zanzara, fino agli esordi come giornalista e alla piena affermazione professionale nella redazione del Corriere della Sera.
Le lettere scritte e ritrovate dalla figlia, come quelle alla futura moglie Maristella.
I ricordi delle persone che lo hanno conosciuto: a partire dai suoi due maestri, Gianpaolo Pansa e Giorgio Santerini fino ai “giovaniGianni Riotta, Gad Lerner, Ezio Mauro.
I nastri con cui Benedetta riscopre, in una pagina carica di emozioni, la voce familiare del padre, nel compleanno prima che morisse.
Emerge l'immagine, diversa da quella che ci è arrivata dalla storiografia ufficiale, di una persona gentile, spesso sorridente, sempre in giacca e cravatta: un “giovane vecchio”, fuori corrente e fuori dal coro. In un periodo in cui l'abito significava tutto di chi lo portava, negli anni 70 carichi delle ideologie da urlare, del conformismo dietro le facili parole, degli slogan, degli scontri e non degli incontri.

L'impegno nel sindacato dei giornalisti, e l'impegno come giornalista nel saper capire e comprendere l'Italia di fine anni 70. Le tensioni nella società, che sfociavano nei cortei di piazza, causa anch'essa del crescere del “partito armato”. Celebri i suoi pezzi sulle Brigate Rosse, come quello successivo all'irruzione in via Fracchia a Genova, dove per la prima volta lo Stato mostrava la forza: “si dissolve il mito della colonna imprendibile”.
Il suo motto, come emerge dai diari, dagli articoli, dalle pagine di appunti, dai libri è tratto dall'Etica di Spinoza:
“humanas actiones non ridere, non lugere, necque detestari, sed intelligere” - non bisogna deridere le azioni umane, né piangerle, nè disprezzarle, ma comprenderle.

Walter Tobagi non era un cronista d'assalto, non aveva lo spirito dell'eroe: aveva capito che il terrorismo si poteva sconfiggere solo se lo si isolava dalle arre grigie nelle fabbriche, nel sindacato e perfino nel mondo dell'informazione, andando a risolvere i contrasti e le tensioni del mondo del lavoro.
Da una parte uno stato che estremizzava le risposte (come le autoblindo a Bologna, le morti di Giorgiana Masi e Francesco Lorusso) che fornivano pretesti alla violenza, all'altra i cattivi maestri, i giornali dell'Autonomia come “Il rosso”. In mezzo il paese, la gente, impaurita, spaventata.

Gli ultimi capitoli sono carichi di tensione: un capitolo dopo l'altro, si racconta del Corriere inquinato dalla Loggia P2 (“il corridoio dei passi perduti”); il terrorismo italiano che un giorno dopo l'altro uccideva in quanto “servi dello stato” i funzionari dello stato, spesso scegliendoli tra i più progressisti (“la paura”).
La ricerca degli anni sulla morte del padre, sul processo successivo (che fece molto scalpore per la scarcerazione per benefici di legge degli autori), nel Palazzo di Giustizia a Milano (“il ventre della balena”). I coni d'ombra ancora esistenti sulla sua morte: qualcuno sapeva già che si stava preparando l'agguato? Ci sono stati (come sostennero i socialisti dopo la morte) dei complici occulti all'interno del corriere, tra i suoi nemici nel sindacato?
Come mai il volantino di rivendicazione fu ritrovato nella ditta Giole di Licio Gelli, a Castiglion Fibocchi?
Coni d'ombra che arrivano fino ad oggi, dove sembra che parte del disegno politico di Gelli e della P2 (il piano di rinascita democratica) si stia attuando.
L'incontro, anche fisico, con gli assassini: la volontà di comprendere le ragioni del male. Le tante ossessive domande: cosa pensano oggi gli assassini per quelle assurde ideologie? Si sono pentiti del sangue versato? Oppure, hanno semplicemente voltato pagina e lasciato all'oblio della memoria il compito di cancellare i ricordi. Qualcuno si è rifatto la vita in Comunione e Liberazione, altri sono uomini d'affare in Giappone.
Per molti, semplicemente e banalmente, non esiste ragione alcuna che spieghi le azioni fatte. Come nei Demoni di Dostojewsky.

Dove il cielo tocca la terra: “la chiave della vita di mio padre sta nel punto dove la terra tocca il cielo. La dimensione di speranza della fede religiosa non è mai stata disgiunta da una visione del mondo analitica e profondamente realistica. La fiducia nelle possibilità di miglioramenti reali nella società va pari passo con la preoccupazione di cosa fare ogni giorno nella propria professione perchè qualcosa cambi davvero. Un sognatore pragmatico. Non era un tribuno affascinatore, eppure fu riconosciuto come leader carismatico da molti giornalisti: il suo slancio fu in grado di scuotere tanti colleghi e trascinarli verso nuovi impegni, proseguiti anche dopo la sua morte.”
E ancora:
“Capire il mondo, fare i conti con il negativo, senza abbandonare la convinzione che esiste la possibilità di fare bene e migliorare le cose. Magari nel piccolo, ma esiste, sempre: anche quando tutto sembra perduto. Il riformismo di papà non era solo un insieme di convinzioni politiche, ma una sorta di condizione esistenziale: il sentiero stretto per sfuggire alla trappola duplice dell'arrendersi al cinismo e alla disillusione, da una parte, e allo sdegnoso rifiuto di mescolarsi con una realtà che sa di essere profondamente corrotta”.

È questo l'insegnamento che ci lascia.

Il link per ordinare il libro su ibs e la scheda sul sito di Einaudi
Wikipedia: Walter Tobagi
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