21 maggio 2012

Uomini soli, Giovanni Falcone

« © Franco Zecchin »

"Non avrebbe voluto diventare un eroe, Giovanni Falcone.
Perché era convinto che uno stato tecnicamente attrezzato e politicamente impegnato potesse sconfiggere il crimine organizzato facendo a meno di tanti sacrifici individuali.
Per Falcone, la responsabilità collettiva di un ufficio specializzato, di una istituzione locale, di una Procura nazionale, avrebbe dovuto cancellare le singole personalità e dunque la vulnerabilità dei singoli operatori dell'Antimafia:
" Quando esistono degli organismi collettivi," diceva" quando la lotta non è concentrata o simboleggiata da una sola persona, allora la mafia ci pensa due volte prima di uccidere."

Non avrebbe dunque , falcone, voluto diventare un eroe.
"Vale la pena," gli avevo chiesto durante un'intervista televisiva del gennaio 1988 "vale la pena di rischiare la propria vita per questo stato?"
E lui rispose, un po' sconcertato: "Che io sappia, c'è soltanto questo stato, o più precisamente questa società di cui lo Stato è l'espressione."
Non eroe per vocazione, ma servitore dello stato: questo era il giudice Falcone."
( stralcio da : Nota introduttiva all'edizione 1995 di Cose di Cosa Nostra - ibs)

La cosa che da più fastidio, nel leggere le storie di questi uomini soli (“Uomini soli” Attilio Bolzoni) è il ritrovare sempre le stesse persone, nelle istruttorie di Falcone e Borsellino, nel j'accuse di La Torre e in quelle di Dalla Chiesa. I notabili della Democrazia Cristiana in Sicilia e a Roma, certi costruttori che coi soldi della ricostruzione dell'isola divennero milionari in poco tempo. Le banche, l'omertà sui conti dei mafiosi.

E c'è anche un'altra cosa: questi uomini soli che oggi, da morti celebriamo ad ogni anniversario, sono stati da vivi attaccati, infangati, diffamati, messi da parte talvolta.
Come Giovanni Falcone, il terzo protagonista del racconto di Bolzoni: da vivo, perse tutte le sue battaglie. Venne bocciato dal CSM per il posto di Caponnetto all'ufficio istruzione. Venne bocciato come alto commissario antimafia (al suo posto fu scelto Domenico Sica, uno che aveva aperto molte inchieste aperte, ma ne aveva chiuse poche).
Bocciato come superprocuratore antimafia: il CSM gli preferì Cordova.

Ma fu attaccato anche sui giornali come Il giornale di Sicilia che pubblicava le lettere della “brava gente” che non sopportava più le sirene della sua scorta che turbavano il loro riposo (notoriamente, la mafia non disturba ..):

è mai possibile che non si possa, eventualmente, riposare un poco nell'intervallo dle lavoro e, quanto meno, seguire un programma televisivo in pace, dato che, pure con le finestre chiuse, il rumore delle sirene è molto forte? Non è che questi
«egregi signori» potrebbero essere piazzati tutti insieme in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini-lavoratori e l'incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siano regoralmente coinvolti senza ragione (vedi strage Chinnici)?


« © Franco Zecchin »


Attaccato, assieme a Chinnici, per la sua volontà di fare la lotta alla mafia, seguendo la scia dei soldi (come aveva cercato di fare anni prima Boris Giuliano alla Mobile): i proventi del traffico di droga che finivano dentro le banche, per essere poi riciclati, magari al nord.
Per Falcone, che proveniva dal tribunale fallimentare, tutto cominciò col fascicolo sul costruttore Spatola, un ex carrettiere che in pochi anni divenne milionario. Grazie alle licenze di Caincimino e Lima al comune.
Seguendo questa pista, era arrivato ad indagare su Sindona e la sua fuga in Sicilia nell'estate del 1979: Sindona che aveva riciclato nel passato i soldi delle famiglie della mafia, i Bontade e gli Inzerillo.


Poi gli anni del pool, istituito da Antonino Caponnetto (dopo la morte di Rocco Chinnici, per l'autobomba del settembre 1983): tutte le indagini che riguardavano la mafia (questa parola che non si poteva pronunciare e che fino a poco tempo prima veniva negata) venivano assegnati ai giudici del pool (Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta). In questo modo si applicava anche a Palermo quel metodo che Caselli aveva applicato con buoni risultati, a Torino contro le BR.


Forse non si sarebbe arrivati al Maxi Processo se non ci fosse stato Tommaso Buscetta: estradato in Italia nel 1984, dagli uomini della Criminalpol di De Gennaro, Manganelli e Pansa, instaurò con Falcone un rapporto di fiducia. Pur rimanendo un mafioso, Buscetta si sentiva tradito dal nuovo corso di Cosa Nostra, il regime del terrore creato da Riina e i corleonesi.
Buscetto permise a Falcone di andare in Turchia e capire il loro linguaggio senza parlare coi genti. Permise al pool di riscostruire collegamenti di famiglie, comprendere omicidi (ma non affrontò mai all'inizio i legami mafia politica) e logiche interne alla mafia:
Con Buscetta ci siamo accostati all'orlo del precipizio, dove nessuno si era voluto avventurare, perchè ogni scusa era buona per rifiutare di vedere, per minimizzare, per spaccare il capello e le indagini in quattro, per negare il carattere unitario di cosa nostra [dal libro scritto di Marcelle Padovani].

L'estate del 1985 è quella della decapitazione della mobile di Palermo, con gli omicidi di Ninni Cassarà, Roberto Antiochia e Beppe Montana.



Il maxi processo a Palermo, iniziato a Palermo il 10 febbraio 1986 e concluso il 16 dicembre 1987 fu l'unica vittoria nella carriera del giudice. Ma segnò anche la sua condanna: “lei ha aperto un conto con la mafia che si concluderà solo con la morte” lo avverte Buscetta.


Iniziano le vendette trasversali dei corleonesi di Riina, ma iniziano anche gli attacchi al pool e in special modo a Falcone. Le lettere del corvo che raccontavano calunnie che però finivano regolarmente sui giornali.


L'insediamento di Meli all'ufficio istruzione, segnò l'inizio della morte di Falcone: morte di cui responsabili morali sono anche quei magistrati che per invidia, timore di questo magistrato così ingombrante, gli votarono contro nel CSM. Il pool fu smantellato, i giudici tornarono ad occuparsi di quei processetti (come l'eccellenza Pizzillo chiedeva a Chinnici anni prima) senza andare a disturbare banche e altri potenti.
La normalizzazione dell'antimafia (che anche oggi piace a tutti i governi di qualsiasi colore), per cui esiste un preciso livello fin cui si può indagare, oltre no.


Con l'attentato all'Addaura del 21 giugno 1989, capì che si trovava di fronte a menti raffinatissime: “ci troviamo di fronte a gente che tende a orientare certe azioni della mafia. Esistono punti di collegamento ra i vertici di cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile, se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.


Come per le lettere del corvo, anche l'Addaura portò altre calunnie, altro fango: la bomba se l'è messa lui.
Falcone è messo all'angolo, relegato ai margini della procura dal nuovo corso del procuratore capo Giammanco. Come Pio La Torre dopo la sua rimozione come segretario provinciale del Pci, come Dalla Chiesa.

Si sfoga, scrivendo sul suo palmare, parlando con gli amici, pochi :
“Il condizionamento dell'ambiente siciliano, l'atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici, certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che essa se ne renda minimamente conto. Si muore generalmente perchè si è soli o perchè si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perchè non si dispone delle necessarie alleanze.
In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”

Nel 1991 viene chiamato dal ministro socialista Claudio Martelli a capo dell'ufficio affari penali nel ministero della Giustizia.
Lontano dal palazzo dei veleni, Falcone trova nuovi stimoli per la lotta alla mafia: la superprocura, il pacchetto antimafia (una nuova legge sui pentiti, il 41 bis, le confisce dei beni dei mafiosi). E, col provvedimento sulla turnazione delle sezioni della Cassazione impedisce che sia la prima sezione della Suprema Corte ad occuparsi del maxi processo.
Ovvero l'ammazza sentenze Carnevale.
Carnevale che ha smontato i processi su Licio Gelli, la condanna su Michele Greco, sulla strage dell'Italicus, ha ordinato un nuovo processo per la strage del treno 904, ha respinto il ricorso di Enzo Tortora che chiedeva che il suo processo venisse spostato da Napoli, ha trasferito quello sui fondi neri dell'Iri da Milano a Roma....
Il 30 gennaio 1992 la Cassazione conferma: cosa nostra esiste ed è una struttura unitaria e piramidale.
E cosa nostra presenta il conto: a marzo l'omicidio di Salvo Lima. I sicari seguono Falcone e la scorta a Roma, ma il segnale deve arrivare forte, a Palermo.
A Capaci il 23 maggio 1992, i sismografi registrano una scossa: sono i 500 kg di tritolo che uccidono Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco di Cillo.
Falcone e sua moglie, Francesca Morvillo, moriranno poche ore dopo.
La convergenza di interessi si è compiuta.

Riina, come un limone spremuto, potrà essere arrestato poco più di 6 mesi dopo.
E ora, 20 anni dopo, ci tocca pure vedere certi personaggi che ne ricordano la memoria?
Uomini soli – Pio La Torre
Uomini soli – Carlo Alberto Dalla Chiesa

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