Il sottotitolo di questo libro è: “La
guerra che ci impedirono di vincere ”:
la guerra di cui ci parla il generale Angiolo
Pellegrini è dello Stato
contro il suo antistato, ovvero Cosa nostra.
Una
guerra di cui l'allora capitano dei carabinieri Pallegrini,
trasferito a Palermo per comandare il sezione
Anticrimine, è stato
protagonista, tra gli anni 1980 – 1985.
Sono gli anni in
cui cadevano sotto il fuoco della mafia magistrati (come Costa,
Chinnici, Terranova), poliziotti (Calogero Zucchetto, Roberto
Antiochia, Ninni Cassarà, Beppe Montana, Boris Giuliano),
carabinieri (Emanuele Basile e Mario D'Aleo, tutti e due comandanti a
Monreale), prefetti (senza poteri speciali, come Dalla Chiesa),
segretari di partito (Pio La Torre), sindaci (Reina), presindenti di
regione (Piersanti Mattarella) ..
Ma ad essere uccisi
dalla mafia erano anche semplici cittadini che avevano deciso di
stare dalla parte dello Stato, senza mettere la testa sotto la sabbia
o guardare da un'altra parte (il medico Giaccone che si era rifiutato
di aiutare un boss).
Una lista lunga di
eroi, molti dei quali l'autore ha anche conosciuto personalmente e
che in queste pagine ha voluto ricordare.
Per molti di coloro
che hanno combattuto questa guerra è sembrato ad un certo punto di
essere ad un passo dalla vittoria, con la sconfitta una volta per
sempre di cosa nostra: la decapitazione dei vertici, la confisca dei
beni dei boss, lo smantellamento della rete di spaccio, di
estorsione. L'eliminazione delle relazioni col mondo imprenditoriale
(vittima spesso consenziente dei soprusi della mafia), col mondo dei
professionisti che hanno consentito ai boss di poter riciclare il
denaro, tenerlo nascosto in paradisi fiscali.
L'eradicazione di
quel rapporto antico tra mafiosi e politici, per quella convergenza
di interessi che spesso ha fatto incontrare questi due mondo che
dovrebbero state agli antipodi.
Invece, il politico
ha bisogno dei voti garantiti dal boss mafioso. E il boss mafioso ha
bisogno del sostegno, della copertura, del riconoscimento da parte
del politico.
Sostegno e
copertura che si esplicitano in tanti modi: per esempio col fatto che
in questo paese si è sempre legiferato in tema di mafia in modo
emergenziale.
E' un argomento
su cui l'autore torna più e più volte nel corso del libro: per
arrivare alla prima legge che riconosce il reato di mafia e permette
la confisca dei beni si è dovuto attendere il sacrificio di due
uomini dello Stato come il prefetto Dalla Chiesa e il segretario PCI
Pio La Torre.
Perché il
parlamento emendasse la legge Falcone (con tutte le misure
restrittive per i boss in carcere) si è dovuti arrivare
all'attentatuni, al cratere di Capaci, alla bomba che uccise
il giudice Falcone e la sua scorta.
Una guerra che
si poteva vincere: le memorie del generale Pellegrini, scritte
assieme al giornalista Francesco Condoluci, coprono gli anni
tra il 1981 e il 1985 a Palermo, dove ricoprì il ruolo di comandante
della sezione antimafia di Palermo.
Hanno un ruolo
prezioso, queste memorie, perché sono una testimonianza in prima
persona di cosa significasse in quegli anni combattere la mafia: la
fatica nel girare per i quartieri della città a caccia dei
latitanti, la costanza nel non arrendersi mai, la capacità di
cogliere le connessioni, trovare i legami tra episodi distanti.
Prorio quest'ultimo
aspetto caratterizzò il lavoro di Pellegrini (chiamato dai suoi "Bill the kid") e della sua squadra, o
“banda”:
«Andremo in cerca delle connessioni, del filo che unisce i singoli delitti. Scordatevi le solite indagini di routine, le analisi e le ipotesi investigative sui killer. [..]ci dedicheremo ai possibili moventi, ai collegamenti tra i vari reati, per costruire deduzioni [..]Basi concrete su cui costruire un rapporto giudiziario completo sulla mafia come fenomeno unico, verticistico».
L'idea
che il capitano Pellegrini aveva in mente era quella di ridisegnare
con rigore scientifico la nuova mappa della mafia.
Mafia
come struttura unitaria e verticistica, le cui decisioni si potevano
ricondurre a poche persone, riunite nella commissione
interprovinciale.
Oggi
sembra una cosa scontata, ma negli anni '80, in cui ancora per molti
la mafia era semplicemente un'invenzione dei comunisti per screditare
la DC, era quasi una rivoluzione.
Rivoluzione
cui si arrivò col duro lavoro sul campo, sulle carte societarie,
ascoltando ore di intercettazioni.
Pellegrini
ebbe l'onore di lavorare a fianco con molti degli eroi civili citati
sopra: a cominciare da Rocco Chinnici, capo dell'ufficio istruzione,
ucciso prima di riuscire a mettere le mani sul terzo livello.
“Il consigliere istruttore, dopo i mandati di cattura per l’omicidio Dalla Chiesa, voleva «salire di livello», andare a colpire il sottobosco politico e affaristico che garantiva complicità e protezione alle cosche. In vena di confidenze, mi aveva fatto quel nome: i Salvo”.
Ma,
come scrisse Pellegrini stesso nel suo diario, “chi
tocca i Salvo muore”.
Pellegrini
ricorda nelle sue pagine anche i giorni a fianco del generale Dalla
Chiesa che in Sicilia intendeva rivoltare come un calzino la DC, far
vedere alla gente che le cose a Palermo e in regione stavano
cambiando, potevano cambiare. Quei 100 giorni in cui il generale
attese i poteri speciali in tema di lotta alla mafia (poter
coordinare tutte le inchieste in un unico ufficio). Scrive l'autore:
“nei palazzi siciliani del potere erano tutti sicuri che il generale, alla fine, non avrebbe mai ottenuto quegli incarichi speciali dal governo centrale. «È un personaggio troppo ingombrante,..”
Un
personaggio che aveva intuito come la mafia stesse cambiando pelle,
stesse uscendo dai confini della Sicilia, investendo al nord, si
aprisse a nuove alleanze con imprenditori rampanti, come i cavalieri
di Catania.
I
poteri speciali furono dati poi, con un decreto legge d’urgenza,
all'alto commissario per il coordinamento della lotta contro la
delinquenza mafiosa, De Francesco.
Dalla
Chiesa, Chinnici. E poi quei tre anni a
fianco di Falcone e
dei magistrati del pool di Palermo, per costruire rapporti giudiziari
completi sulla nuova mafia, sulle nuove famiglie, sui loro affari nel
cemento e nell'industria.
Come
l'atto giudiziario su «Michele Greco + 161», che fu la base della
sentenza di rinvio a giudizio del maxi processo, qualche anno dopo.
O il
rapporti contro Piddu Madonia,
che “rappresentava la nuova generazione di
una mafia imprenditrice, capace di costruire cartelli insieme a
imprese e funzionari pubblici per monopolizzare il settore edilizio,
limitando l’uso delle armi”.
Rosario
Riccobono, il boss che aveva reinvestito i
proventi del traffico di droga “acquistando
proprietà immobiliari nel Centro e Nord Italia oppure creando
società fittizie che facevano da «lavatrici»”.
Sono gli anni della
mattanza, la seconda guerra di mafia, in realtà un golpe dei
corleonesi che fecero fuori gli esponenti della famiglie
egemoni, che si erano arricchite col traffico della droga negli anni
'70. I Bontade e gli Inzerillo prima di tutto.
Sono gli anni in
cui grazie all'aiuto di Tommaso Buscetta, pentito della mafia
perdente, Falcone e il pool di Caponnetto (e Di Lello, Guarnotta,
Borsellino) riuscirono ad avere un «codice interpretativo», uno
strumento per poter leggere tra le pieghe di Cosa Nostra:
“Don Masino stava confermando la teoria di Falcone, quella che anch’io avevo fatto mia fin dai primi giorni a Palermo: la mafia siciliana, Cosa Nostra, era organizzata in maniera unitaria e piramidale.”
Si era arrivati al
maxi processo del 1986, coi mafiosi alla sbarra per essere
condannati per la prima volta all'ergastolo. In manette finirono
politici collusi (ma rimasti intoccabili) come Ciancimino.
Si era veramente ad
un passo dalla vittoria.
Ma proprio allora,
le cose iniziarono a cambiare: “Tra i partiti di governo
iniziarono a sgomitare i crociati del garantismo; dal nulla, anche
tra i magistrati, spuntarono i puristi a sollevare dubbi procedurali
sul futuro maxiprocesso”.
“Chiussai si
vince e chiussai si perde” recita un proverbio siciliano che
l'autore usa per descrivere quei mesi. Quando si smontò, pezzo per
pezzo, quel gruppo di uomini che avevano combattuto la guerra.
Isolandoli, come Falcone. Spostandoli ad altro incarico, come
Pellegrini stesso. Lasciandoli nelle mani dei carnefici mafiosi come
Montana (capo della catturandi) e Cassarà (dirigente della Mobile).
Sacrificati in nome
della normalizzazione.
Sono
questi, coloro che impedirono ai carabinieri della banda di
Pellegrini - e ai magistrati del pool antimafia, e ai poliziotti
della Mobile di Palermo, agli uomini della Guardia di Finanza, … e
ai tanti cittadini – di vincere.
Sono
quanti screditarono e attaccarono in tante maniere Falcone e
Borsellino, calunniandoli da vivi e omaggiandoli ipocritamente da
morti.
Sono
quanti, nell'arma, tramarono alle spalle di Pellegrini per spostarlo
da Palermo.
La scheda del libro sul sito di
Sperling
& Kupfer e
l'intervista all'autore:
Perché ha deciso di scrivere questo libro?Ho voluto scrivere questo libro per ricordare le vittime della mafia, le tante persone che si sono sacrificate per lo Stato e le istituzioni, eppure sono state rapidamente dimenticate. L’ho scritto soprattutto pensando ai ragazzi, che conoscono così poco della storia recente d’Italia.
Poi, via via che raccoglievo il materiale e ripercorrevo gli eventi, ho avuto la sensazione che dietro quello che è successo – e ancora di più, quello che non è potuto succedere – ci potesse essere una mente sottile. Non mi riferisco ai corleonesi, ma a qualcuno di più sfuggente, che ha fatto naufragare le attività avviate da Giovanni Falcone. Questo qualcuno, prima, ha eliminato o allontanato tutti i suoi collaboratori più fidati, sostituendoli con persone che non sempre erano all’altezza. E poi ci fu l’evidente tentativo di delegittimazione dello stesso Falcone: il fallito attentato all’Addaura, gli anonimi del corvo, la mancata elezione a capo dell’ufficio istruzione, per cui il pool fu gradualmente smantellato. Venne poi ricostituito, sì, ma ormai il danno era stato fatto. Non può essere tutto attribuito al caso!
Come ha pagato il suo personale impegno contro la mafia?In tanti modi: rinunciando alla tranquillità, allontanando la mia famiglia per non esporla, prendendo e imponendo costanti (quasi maniacali) precauzioni. Che però a qualcosa sono servite, visto che oggi sono qui a raccontarle e che nessuno dei miei uomini ha mai subito danni. Il pericolo maggiore probabilmente l’ho corso una sera, uscito dalla questura. Ero fermo a un semaforo e ho visto spuntare dal nulla una moto blu, con due uomini. Non vedevo i visi, coperti dal casco, ma ho avuto subito la sensazione che fossero lì per me. Ho accelerato e sono partito a tavoletta, lasciandoli dietro. Anni dopo ho avuto conferma che quello era un attentato bello e buono. Me l’ha detto Angelo Siino, uno degli uomini di Riina, che quella volta volevano uccidere, come avrebbero ucciso poi Ninni Cassarà. Non ci sono riusciti, e poco dopo sono stato allontanato da Palermo. Neppure questo può essere un caso.
Ma esiste anche un prezzo, meno evidente e forse più alto, che si paga ogni giorno. Una persona in prima linea deve indurire il cuore, mettere a tacere i sentimenti, perché altrimenti, di fronte alla morte di colleghi, che spesso sono anche amici, e al rischio che si corre ogni ora, la tentazione di rinunciare è fortissima. Invece bisogna resistere.
Qual è l’insegnamento più importante che le ha trasmesso Falcone?L’onestà assoluta di uomo e giudice. Di qualunque indagine si trattasse, Falcone la conduceva con estremo rigore e serietà, senza travalicare, senza inventare, e rimetteva il giudizio alla corte. Dovevano essere i documenti e le prove a parlare, non le sue convinzioni. Questa onestà morale e intellettuale l’ho sempre portata con me.
“Contrada
non si sottrasse” - Un passo del libro dove Pellegrini racconta
di una telefonata da uno dei cugini Salvo (i potenti esattori
siciliani, elettori della DC ).
Angiolo Pellegrini, Don Ciotti e Attilio Bolzoni alla presentazione |
Una foto storica: in Brasile, per l'estradizione di Buscetta, Cassarà, Borsellino, Pellegrini, De Luca, Falcone e Ayala |
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