Dalla grande recessione che ha travolto l’Italia e l’Europa nel 2009, tutti abbiamo potuto misurare nella vita quotidiana la portata delle sfide che le nostre società devono affrontare. Risalire la china in cui è sprofondata la nostra economia. Accogliere migliaia di profughi che arrivano da Paesi vicini. Dalla caduta del muro di Berlino a oggi mai si era avvertito tanto un bisogno di politica, di leadership, nazionale e globale. Di idee, di visioni, di scelte, di qualcuno che si prenda la responsabilità di decidere.Da Google a Facebook a Uber e AirBnB, che si comportano come fossero degli stati e che offrono servizi quasi gratis per soddisfare i bisogni di persone.
Invece ci troviamo di fronte sempre più spesso al vuoto. Di contenuti, di decisioni, di potere. Gli slogan della politica nazionale si accumulano nei titoli dei giornali, fanno discutere in qualche talk show e poi svaniscono, privi di conseguenze. In Italia parliamo sempre delle stesse cose: la burocrazia che strozza la crescita, l’assenza di meritocrazia, i costi della casta, è tutta colpa dell’euro, le siringhe che al Sud costano dieci volte più che al Nord. Tutto qua. E chiediamo a qualcuno –ai politici – di fare qualcosa. E loro non lo fanno. Magari non ci provano, magari hanno altre meno nobili priorità, ma anche quando ci provano non ci riescono. Sono quindi arrivato, per citare Altan, ad avere pensieri che non condivido: la politica non serve a niente.
O meglio, non serve più a niente. Il politologo britannico Matthew Flinders sostiene che noi detestiamo la politica perché ci siamo dimenticati che ha una natura “specifica e limitata”, cioè che non può fare tutto. Vediamo tutti i giorni che le decisioni dei nostri governi non sono più in grado di incidere sulle scelte di fondo della nostra vita, eppure è sempre a loro che continuiamo a rivolgerci in cerca di aiuto.
Noi elettori chiediamo sempre di più ai nostri politici che si sentono incentivati a promettere risultati mirabolanti, riforme radicali, prosperità per tutti. Ci sono due sole soluzioni per ristabilire un rapporto sostenibile tra cittadini e governi: o ridurre l’offerta, o ridurre la domanda. I politici devono imparare a promettere meno, possibilmente soltanto quello che possono realizzare, e i cittadini devono ridimensionare le loro aspettative. Ma il mondo sembra andare in un’altra direzione, perché le domande del pubblico sono insaziabili, i problemi della società sempre più complessi, le risorse disponibili sono insufficienti e migliorare un po’ l’efficienza del settore pubblico non basterà mai a sistemare tutto.
Se la politica non serve a niente, dobbiamo tutti rassegnarci al declino? È il caso di iniziare a ragionare anche sull’ipotesi che la risposta a questa domanda sia semplicemente: “Sì”. Ma all’orizzonte si vede una forza in gra do di compensare lo svaporamento di autorità dei governi: la tecnologia, portatrice di un cambiamento epocale che sta sconvolgendo gli equilibri e spostando il potere dai governi alle imprese. E alle persone. È la prima volta che i grandi cambiamenti della società sfuggono così completamente alle scelte della politica. Il processo decisionale è troppo lento per inseguire e indirizzare i cambiamenti dell’innovazione, lo spazio in cui si crea il valore aggiunto troppo impalpabile, i protagonisti del cambiamento troppo potenti e globali per essere affrontati da piccoli Stati nazione. Ma il fatto che la politica sia diventata inutile non è detto che sia una cattiva notizia.
Persone che votano sempre di meno perché è cresciuta la convinzione che questa politica (che governa gli stati) non sappia più risolvere i loro problemi.
E se la politica non serve, ci si deve rivolgere ad altro.
Dice Stefano Feltri che questo potrebbe non essere necessariamente un problema.
A patto che sappiamo individuare delle norme per indirizzare la tecnologia moderna verso forme più democratiche e non ologopolistiche.
Qui potete leggervi un estratto dal libro:
Da quando c’è Matteo Renzi presidente del Consiglio si è affermata una rassicurante idea di come uscire dalla crisi. «Bisogna che l’Italia torni a fare l’Italia» ripete il premier, per poi partire con l’elenco di tutto quello che abbiamo di «bello» da offrire al mondo, dal cibo – celebrato a Milano all’Expo 2015 e sugli scaffali dei negozi Eataly del renziano Oscar Farinetti – all’arte e alla cultura, che lui intende sempre come insieme di monumenti, quadri, strade, palazzi, chiese. I libri e le idee sono fuori dal suo orizzonte. Il futuro dell’Italia passa da lì, sembra intendere Renzi, dalla trasformazione dell’intero Paese in una specie di grande museo degli Uffizi, simbolo fiorentino della cultura italiana esposta al mondo.La politica non serve a niente, di Stefano Feltri - Rizzoli editore
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