09 settembre 2015

Lo stato di ebbrezza, di Valerio Varesi

Il male maggiore non è la corruzione, ma l'assenza di coraggio”.

Domenico Nanni è stato un contestatore di sinistra, più per un desiderio di essere come tutti, poi un giornalista di nera ne l'Avvenire di Bologna, grazie alla raccomandazione della madre. Poi un pubblicitario negli anni '80 per una cooperativa di prodotti suini, curatore di immagine per politici ..
Ha visto passargli davanti agli occhi la fine degli anni della contestazione, degli indiani metropolitani, dell'immaginazione al potere. Contestazione che si è tramutata poi nel reflusso degli anni '80, quando a sinistra si passò da Berlinguer e le convergenze parallele, al craxismo rampante dei socialisti della Milano da bere. L'occupazione delle poltrone in tutti posti possibili, la corruzione con un tariffario ben preciso, per tutte le opere pubbliche messe in cantiere per rubarci sopra.
E, soprattutto, la vendita agli italiani della grande illusione: l'illusione di vivere nel bengodi, di essere nel mondo migliore, dell'eterno presente. Di tutto questo, l'ex comunista Nanni è stato anche autore: dell'invenzione di questo mondo parallelo dove si può essere tutti felici. A sessant'anni e passa, relegato su una carrozzina, con una relazione alle spalle e un'altra con una ragazza molto più giovane, è arrivato il momento di fare i conti con la coscienza.

L'incipit è “furioso”, un jaccuse contro tutta la sua generazione, che hanno lasciato solo macerie sulle spalle delle generazioni del domani:
Vecchie bagasce pentite, ecco cosa siamo adesso. Ballerini con l'artrite ai piedi, ubriachi senza più un trillo, uno zompo, un saltello. Zavorrati come trichechi spiaggiati tremolanti di lardo e di trippe. Ci sta passando sopra la testa un'intera generazione al galoppo. Saltano oltre che sembriamo una siepe di Ascot. Mica son simpatici. Ci han cacciato a ringhi prima di infilarsi nella carcassa puzzolente dell'Italia, che è tutta la loro eredità. Non ce lo perdonano di aver spolpato le migliori pezzature! Quattro ossa da leccare è tutto quel che gli resta. Le frattaglie, altro che quelle! Abbiamo consumato anche la loro parte di banchetto: ricchezza, terra, petrolio, ossigeno ..Han solo dei debiti e da farsi un culo. Una pattumiera dopo le gozzoviglie, 'sto pianeta, coi suoi ottanta miliardari a sbafare e tutti gli altri a leccare gli avanzi sul pavimento prendendosi calcagnate.
Digeritevi le pleuri, la milza e i rognoni! Sciaguattate nei succhi gastrici, fateci il bagno e ascoltate i nostri rutti!
Avevamo promesso ben altro nei gloriosi Sessantotto e Settantasette portati sul petto come medaglie! Tutti a strimpellare serenate filosofiche sulle magnifiche sorti. Ne avevamo la bocca piena, ma eravamo solo un nugolo di pidocchi che avrebbero reso anemico un toro”.

Nanni, assieme alla compagna dei tempi Susanna, ha costruito il teatrino di immagine, è diventato un pierre per imprese e imprenditori, per politici.
Un immagine venduta sulla televisione, quel tubo a raggi catodici che inchiodava gli italiani sulle poltrone:
«Cazzo! Mica l'abbiamo capito noi cos'è la televisione», mi sussurra Tugnoli. «Craxi sì che l'ha capito e ci marcia. Gli rifarà la testa agli italiani a forza di imbottirli di balle! Ci si mette quello che si vuole nella testa degli italiani. È facile come imbottigliare la Barbera tanto son boccaloni».«Nigliorare le teste della gente è faticoso, farle scivolare in basso, è tutto più facile e rapido .. ci vuole niente .. Solo che sollecitare la pancia, spingersi un giorno dopo l'altro sempre più in là oltre il recinto della decenza fino a far diventare tutto normale, anche l'obiezione», dico io.«E alla fine non ci accorgiamo che siamo cambiati», mi fa allontanandosi desolato, forse dispiaciuto, carico di una vaga colpa.»

«Se la fame non c'è, bisogna ingolosire» è il loro slogan. Di una generazione che ha pensato solo a riempirsi la pancia, illudendosi che il bengodi sarebbe durato all'infinito:
[Calcaterra] incarnava l'essenza dei socialisti anni Ottanta: la totale rimozione della storia, la fuga in mondi artificiali per non vedere lo schifo. Appena toccavi certi argomenti, sguillavano via sul sapone. La guerra di mafia in Sicilia non li toccava, i mille morti che c'erano stati nemmeno e che tre regioni fossero governate dalla malavita in gran parte collusa coi loro alleati democristiani, non li turbava. Men che meno che lo Stato, per rifarsi una verginità, avesse mandato Carlo Alberto Dalla Chiesa a morire tanto per avere un martire, uno dei tanti, sul quale strapparsi i capelli come la maggior prefica.

Sono gli anni della rimozione e dell'autoassoluzione delle colpe, della nave che va, dell'Italia potenza industriale.
Industria che stava in piedi grazie alle svalutazioni della lira:
Svalutare era l'unica manovra che conoscessero i magnifici cinque del pentapartito. Svilire la moneta per farci diventare gli artigiani a buon mercato del vecchio continente. I ciappinari del mondo industrializzato cui concedere l'elemosina di lavoretti di poca spesa e molta resa: i tappi per le bottiglie, le maniglie, viti, bulloni, sartoria, pulsanti, occhiali, utensili[..] Ci restava solo quello prima che arrivassero i cinesi e gli indiani a spazzarci via le briciole”.

Archiviata per sempre la questione morale a sinistra, la politica diventata un arraffa arraffa:
I partiti erano diventati il papà e la mamma di tutti. A chi ti rivolgevi se non a chi posava il culo su tutte le sedie che contavano? Alla lotta di classe si era sostituita la pretesa personale. C'era il disoccupato a cui trovare il posto, l'iscritto con il figlio da sistemare, l'impiegato del comune con lo scatto di carriera, l'insegnate che vuol fare il preside, il primario che punta alla direzione sanitaria...
[..]L'Italia da cima a fondo si era ridotta a un'Ambra Jovinelli, al futile vaudeville di magliari, nani, ballerine, premi e cotillon. Un paese di sorrisi smaglianti, ghigni pecorecci e giocatori delle tre carte. [..]Perfino l'abbraccio tra la mafia e i cavalieri d'industria del nord ormai avvinghiati quanto Clark Gable e Vivien Leigh di Via col vento. I Ferruzzi di Ravenna avevano raccolto i Buscemi di Palermo, Berlusconi era culo e camicia con Marcello Dell'Utri e Vittorio Mangano, la politica succhiava consenso dai padrini nascondendosi dietro il ghigno curiale di Giulio Andreotti. Gente devota e d'onore quella di Cosa Nostra!”

La democrazia ostaggio dei partiti:
Più di tutto, col morire degli anni ottanta, crepava serenamente qualsiasi idea di politica e di partito. Non era più che sigle a circoscrivere consorterie dove tutti cercavano spudoratamente il tornaconto. Negli anni erano affiorati i trafficoni come Gardenghi, i padroni delle tessere e grandi orchestrali delle clientele Avevano greggi così numerosi che un caprone l'infilavano ovunque. Diventavano sindaci e assessori certe teste di noce da ignorare tutto l'abbecedario dell'amministrazione. Funzionava eccome l'ascensore sociale in politica!”.

Finché non si è arrivati all'amara scoperta che stavamo vivendo in un mondo illusorio, in uno stato di ebbrezza, come il titolo del libro: a furia di svalutare, a furia di fare opere a debito (che poi sarebbero ricadute sulle spalle delle future generazioni), l'Italia si scoprì improvvisamente fragile, in quel 1992-1993.
Gli anni delle stragi di mafia e delle inchieste sulle tangenti, nelle città del nord.
Gli anni in cui si scoprì che la festa era finita.
Forse era finita prima, con la caduta del muro di Berlino, ed ecco “contrordine compagni”, non ci chiamiamo più comunisti. Basta la rivoluzione, la falce e il martello: ora ci chiamiamo siamo un partito democratico e di sinistra.
Ma per altri partiti, specie quelli del pentapartito della grande sbornia degli anni '80, la fine fu pure più tragica: niente pianti nella bolognina, ma vere manette per assicurare nelle patrie galere quelli che fino a poco prima erano segretari, ministri, senatori.
E, improvvisamente, un parte degli italiani che magari aveva pure preso qualche briciola del bengodi, iniziò ad incazzarsi:
“Gli italiani son fatti così: restan clienti quieti e devoti finché succhian la poppa, ma appena li stacchi dal godimento, strillano e maledicono come li avessi sempre bastonati”.



Il lancio delle monetine davanti all'Hotel R aphael sancì il temporaneo risveglio di una parte di italiani che, sulle note di Guantanamera, volevano lanciare qualche altra lira al Bettino.
L'uomo forte, il riformista. Quello delle assemblee scenografiche, la piramide e il garofano. Quello delle pause ad effetto.

Ma un altro grande illusionista era pronto a scendere in campo: perché noi italiani siamo così. Siamo un popolo telecomandato che piace rispecchiarsi nell'uomo furbo, una simpatica canaglia, vincente. Chi se ne frega da dove viene, se era cresciuto nel grembo dei socialisti appena cacciati a furor di cappio e monetine.
È il 1994 del nuovo miracolo italiano.
L'uomo cresciuto con le televisioni, che aveva coltivato i suoi elettori a colpi di Drive In e donne scosciate.
D'altronde dell'importanza della televisione come mezzo di (dis)educazione lo si era capito con la storia del povero Alfredino Rampi: il bambino caduto nel pozzo a Vermicino. Milioni di italiani a seguire la diretta dal pozzo, stretti attorno alla sofferenza.
In fondo, per piacere agli italiani è necessario essere concilianti o autoritari. Mica puoi giocare sulle loro virtù! O ne sei complice o li bastoni. In tutti e due i casi non ti saran mai fedeli se non per tornaconto. Lo sapeva bene l'uomo di Arcore. Ci fosse stato ancora Benedetto Croce, avrebbe detto che incarnava lo spirito del tempo. Gli andava a pennello più di un abito di sartoria. Sapeva suonarlo come un violino, il popolo italiano. C'erano intere divisioni di missionari sguinzagliati per lo stivale a portare il buon verbo. Una vera Bibbia della pubblicità, il nuovissimo testamento dell'imbonitore. C'aveva messo dentro tutti i pregiudizi, i tabù e le chimere più care al belpaese: uno slogan da stadio come ragione sociale, l'immagine del tricolore patriottardo da sventolare sugil spalti, l'ostilità al comunismo anche post mortem, il fisco così vorace da sfruculiare l'esentasse, la giustizia che vorrebbe raddrizzare le più persistenti virtù .. Un gelato millefrutti da ingolosire un'anoressica! Senza trascurare le illusioni, che sono il sale della politica. Un milione di posti di lavoro, meno tasse, più ricchezza...”

Valerio Varesi attraverso gli occhi di Nanni, racconta la storia dei nostri ultimi 35 anni: la parabola decadente della vita del protagonista diventa così metafora della decadenza dell'Italia. Dell'innamoramento per gli uomini forti, da Craxi a Berlusconi con l'intermezzo breve di Prodi (mai amato fino in fondo, troppo cattolico per gli italiani) e ai governi tecnici.
Una storia che passa attraverso gli scandali, i ribaltoni a destra e una sinistra capace solo di dividersi e scindersi in forme sempre più atomiche. Rivediamo tante storie di cronaca di quegli anni: Tangentopoli, in cui pure lui viene risucchiato. La genesi della Lega, che dal nord delle valli e delle campagne scende a Roma ladrona per cacciare via i corrotti.
La fine ingloriosa dell'Ulivo e il perenne ritorno del cavaliere, da troppi dato per morto.
Finché a morire è la nostra democrazia, svuotata dall'interno, rimpinguata di guitti che sono stati solo capaci di sdoganare il fascismo e le ruberie. Le clientele e le raccomandazioni.
La finanziarizzazione della cosa pubblica con comuni e regioni in mano alle banche.
Finito lo stato di ebbrezza cosa rimane? Solo un cumulo di macerie, un paese che viene governato solo con la paura. La paura delle guerre, della crisi, della povertà.
«Non lo capisce come darà il nostro futuro?» mi ripeteva Corlaita. «Basterà un invasato che ci rassicuri e ci dia speranza! Ci porterà via tutti per due soldi! Ci consegneremo in massa arrendevoli come un esercito in rotta purché ci liberi da 'sto baillamme! L'invocheremo! Lo stiamo già invocando! Meglio un despota della fragilità dell'incertezza».

La domanda che sta dietro a questo libro, e che probabilmente è il motivo per cui uno scrittore di noir ha scelto questo argomento è “come è stato possibile”? “Stato di ebbrezza” è un atto di accusa contro gli italiani. Sbaglia chi crede che sia un libro sull'antipolitica: Domenico Nanni è l'emblema di questo fallimento: figlio di quell'Italia cresciuta con la fatica, con grandi illusioni e speranze da giovane, che ha coltivato e prodotto un'altra Italia. Questa: la politica dei leader forti costruiti sulla televisione. Dei jingle elettorali e degli slogan che sembrano spot. Una politica dove si confonde destra e sinistra e dove alla fine emerge solo la differenza tra chi sta dentro e chi sta fuori. Dove la politica è decisa fuori: fuori dal Parlamento, fuori dalle aule istituzionali. Dove al cittadino rimane la sensazione di non poter più decidere nulla attraverso il voto. 
Se siamo arrivati a questo è anche colpa nostra. Nel nostro voler delegare ad altri la cosa pubblica. Per pigrizia. Al nostro sapersi indignare solo davanti la televisione.

Una nota sullo stile della scrittura: sulla pagina Facebook dell'autore avevo scritto una nota sullo stile del libro: “Mi sembra scritto di getto, come se aspettassi da tanto tempo di scrivere questo libro. Dei nostri trent'anni di storia .”
Valerio mi ha dato una risposta diversa:
Il ritmo e l'enfasi lo fanno pensare, in realtà è una scrittura molto lavorata e meditata.”
E sicuramente sono molte le riflessioni che nascono a fine lettura.
Il libro termina con la votazione al senato sul caso Ruby: quando la maggioranza della nostra camera alta votò a a favore della tesi Ruby nipote di Mubarak.
Si era alla finalmente arrivati all'immaginazione al potere....

La scheda del libro sul sito di Frassinelli.

I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

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