Un milione di posti di lavoro … era
la promessa con la quale il cavaliere della (presunta) rivoluzione
liberale aveva sedotto milioni di italiani.
Il milione di posti non l'abbiamo visto
in compenso la riforma del lavoro chiamata Biagi (anche se fu
approvata dopo la morte del giuslavorista) creò una generazione di
precari. Giovani che entravano nel mondo del lavoro dalla porta
posteriore e condannati a rimanere nei gironi infernali del lavoro a
sei mesi, ad 1 anno, senza tutele, con pochi diritti ..
Ci dicono però che non bisogna essere
schizzinosi, che così è il mondo, che dobbiamo fare concorrenza ai
polacchi, ai cinesi.
Anzi, per essere ancora più
competitivi, i nostri governanti e gli esperti del lavoro altrui
hanno deciso che bisognava togliere tutti i paletti che governavano
la licenziabilità.
Il famoso articolo 18.
Arriveranno investitori a frotte. Erano
i tempi di Monti e Fornero.
Poi è arrivata la stagione della
rottamazione, dopo una breve pausa del governo Letta e Alfano.
La promessa al popolo è sempre la
stessa, si vede che l'allievo aveva imparato bene le tecniche del
maestro.
Un milione di posti di lavoro (per
bocca del ministro del lavoro Poletti, quello della figuraccia estiva), arriverà la crescita, abbiate fede (e in
effetti la politica è ormai diventata questione di dogmi, di fede).
Il jobs act è una delle riforme, fiore
all'occhiello dell'attuale legislatura, che recentemente ha pure
avuto il plauso di Moody's (una volte le agenzie di rating erano
invise, quando ci declassavano il rating).
Jobs act, ovvero riforma del lavoro: al
centro il nuovo contratto a tutele crescenti, per cui non vale più
l'articolo 18. Via, sparito. Roba vecchia. Tabù.
Il licenziamento, eccetto che per
chiari (?) motivi discriminatori viene ora monetizzato. Tu
lavoratori, che sia tuta blu o impiegato di concetto, sei solo il
prezzo del rimborso per mandarti via.
Tolti i paletti, e concessi gli
incentivi a tre anni per i nuovi contratti (con la legge di
stabilità), siamo qui ad aspettare la crescita, l'Italia che
riparte, le assunzioni.
Servirebbe un ente esterno che
certificasse: l'Istat, per bocca del presidente Alleva, ha
criticato l'uso che il governo ha fatto dei numeri sull'occupazione.
Un inseguire decimali, confrontando
mese su mese.
Un calcolare i nuovi contratti,
confondendoli con nuovi posti di lavoro, dimenticandosi delle
cessazioni.
Numeri sparati sulle prime pagine deigiornali, nei TG, lanciando al popolo del telecomando il messaggio
chiaro: togliamo di mezzo le tutele, togliamo di mezzo i sindacati,
togliamo di mezzo la concertazione (roba vecchia, antica, come
mettere il gettone nell'Iphone).
Siamo solo io e te, dipendente.
I numeri indicano un aumento dei nuovi
contratti, più dovuto agli sgravi fiscali (che prima o poi finiranno
e vedremo) che altro. Ci sono stati anche i furbetti
che hanno licenziato per assumere (e qualcuno avrebbe dovuto
controllare, visto che sono soldi pubblici).
Ma i numeri dicono anche i per le fasce
giovani questa crescita non c'è. Che i contratti a tempo determinato
(che dovevano morire) continuano ad esserci. Che l'occupazione che
cresce o che si mantiene è quella degli over 50, per
la riforma Fornero sulle pensioni.
Ma è come andare contro i mulini a
vento … Chi critica le riforme, chi solleva dubbi, chi si permette
di cantare fuori dal coro, è gufo, disfattista.
E chi se frega del demansionamento, del
controllo a distanza, dell'assenza di controlli sulle
discriminazioni, sulla qualità del lavoro che viene offerto. Il
Fatto Quotidiano aveva fatto notare come questa riforma ricalchi
in buona parte, le proposte fatte nella primavera scorsa da
Confindustria.
Che ora, in uno slancio di ottimismo,
getta il cuore anche più in là del governo: arriveremo al milionedi posti di lavoro e il PIL crescerà più dell'1 %.
Come a dire, lasciate fare a noi,
questo paese è rimasto bloccato per anni proprio dai sindacati. Lo
ha detto il presidente di Confindustria Squinzi e lo ha ripetuto
anche il ministro Boschi. L'avvocato che la sorte ci ha dato come
ministro delle riforme.
Peccato che poi siano state proprio le
grandi imprese quelle che, in questi anni, non hanno investito nel
paese (siamo quasi i peggiori in Europa), se ne sono andate,
delocalizzando
la produzione (caso Omsa).
Presa
diretta questa sera farà il check in della riforma del
lavoro, andando in giro per l'Italia, dal nord al sud, da Mirafiori
a Melfi. A che punto siamo con le tutele crescenti?
La
scheda della puntata: TUTELE CRESCENTI
A sei mesi dell’entrata in vigore del Jobs Act, PRESADIRETTA dedica la 2’ puntata proprio alla riforma del mercato del lavoro.E’ servita questa riforma a creare nuova occupazione? Stiamo costruendo nuovi e buoni posti di lavoro?A PRESADIRETTA un viaggio dal nord al sud del paese, dalla Fiat di Melfi alle piccole imprese del nord, tra chi ha ripreso a lavorare e chi è fermo al palo, tra storie positive di chi assume e continua a garantire l’articolo 18 e chi invece licenzia e riassume approfittando degli sgravi governativi, i cosiddetti “furbetti del jobs act”.Le telecamere di PRESADIRETTA sono entrate nella giungla del precariato in cui devono destreggiarsi i giovani alle prese con la ricerca del primo impiego. Tra annunci on line e sui giornali, dove c’è chi propone di tutto: dalla “vendita” di un posto di lavoro alla truffa vera e propria. Un far west al quale la riforma del mercato del lavoro non ha ancora posto fine.PRESADIRETTA ha raccolto le analisi e un primo bilancio di numerosi economisti italiani, le interviste di Riccardo Iacona al ministro del Lavoro Giuliano Poletti e al segretario generale della Cgil Susanna Camusso. E infine un bellissimo ragionamento sulla disuguaglianza del Premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz.
“TUTELE CRESCENTI” è un racconto di Riccardo Iacona con Alessandro Macina, Federico Ruffo, Sabrina Carreras, Lisa Iotti, Marina Del Vecchio, Antonella Bottini.
PS: non c'entra direttamente col tema
della puntata, ma non posso non citare quanto è avvenuto venerdì, aseguito dell'assemblea dei dipendenti dei musei romani.
Lo scandalo, la vergogna, la misura che
è ora colma. Che ha costretto il governo ha decretare con urgenza:
da oggi i dipendenti museali fanno un servizio di pubblica necessità.
Possono rimanere per mesi senza essere
pagati degli straordinari, possono pure continuare a lavorare male,
con una cattiva dirigenza centrale e con i vuoti di organico.
Ma ora i turisti possono stare
tranquilli.
Che importa se Pompei crolla ed è
visitabile solo un quarto della città?
Se molte delle opere d'arte dei musei
italiani sono nascosti, perché non ci sono spazi per mostrarli e
personale a sufficienza?
Che importa se l'Italia spende in
cultura (il servizio essenziale, sentite come suona bene?) solo lo
0,19% del PIL. Meno di un quarto di quando si spendeva negli anni
'50, scriveva sabato Stella sul corriere.
Abbiamo trovato il colpevole dei mali
di Roma e dell'Italia: non i Casamonica, non mafia capitale, non la
compravendita dei senatori, non la presidente della commissione
antimafia della Campania indagata per voto di scambio.
I colpevoli sono i lavoratori che
pretendono rispetto e anche uno stipendio dignitoso e regolare.
Oggi è chiedere troppo.
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