Andrea Casalegno ricostruisce in questo breve ma intenso libro, a partire dall'attentato nel quale perse la vita suo padere, il giornalista Carlo Casalegno, la sua vita, in un lungo viaggio dall'adolescenza, agli studi universitari, l'impegno in politica con Lotta Continua e il lavoro nella Casa Editrice Einaudi.
Un viaggio nel quale racconta della sua famiglia, il padre giornalista della Stampa ma che aveva iniziato come insegnante di superiori, il nonno Luigi Salvatorelli, storico, le vacanze in Toscana.
L'università, l'incontro con la cugina Betta, l'amore.
E la lunga militanza in Lotta Continua, fino al suo scioglimento nel 1977: in un lungo articolo si racconta dell'evoluzione della lotta armata, dalla rivoluzione possibile, alla lotta armata. Percorso che porta a dimenticare la rivoluzione, il vero obiettivo (semmai realizzabile è un altro discorso), ma in un crescendo autoreferenziale, si cercava solo la prossima vittima da gambizzare o uccidere.
Uccido, dunque sono.
Le Br e gli altri gruppi armati (come Prima Linea) agirono come cardine della strategia volta a impedire l'ingresso del Partito Comunista nella maggioranza di governo.
Un altro capitolo è dedicato al delitto Calabresi, al clima di linciaggio che Lotta Continua creò attorno al commissario, e alla giustificazione che tramite un volantino che giustificava l'uccisione come “atto di giustizia”.
Non mi è piaciuta la auto assoluzione che Casalegno fa di Lotta Continua (sulla vicenda Calabresi): il ragionamento per cui “Uccidere Calabresi sarebbe stato per un gruppo politico di estrema sinistra , un imperdonabile errore politico”.
“Anch'io ero convinto che Calabresi fosse colpevole per la morte di Pinelli ..
[..] ma proprio per questo ero certo che nessun gruppo di sinistra aveva interesse a fare giustizia uccidendo il commissario. A parte il fatto che uccidere non è giustizia, e che la giustizia proletaria non è diversa dalla giustizia che vale per tutti, a noi Calabresi serviva da vivo e non da morto”.
Sarebbe interessante mettere di fronte Mario Calabresi, che in “Spingendo la notte più in la” compie un percorso nella memoria analogo a quello di Casalegno.
Casalegno continua il racconto col declino di LC, e l'arrivo degli “sciacalli”, verso cui non esprime nessun pietà né giustificazione:
“Chiunque sa che una persona che lui conosce è un assassino e non lo denuncia è a sua volta un assassino.”
L'uccisione di Carlo Casalegno da parte di Prima Linea, diventa l'uccisione di un simbolo: di un giornalista che faceva sulla Stampa delle analisi acute sul terrorismo, un giornalista fermo nella condanna e nella demolizione degli alibi politici che questi presunti rivoluzionari si davano e che permettevano la creazione di una zona grigia di simpatizzanti.
Carlo Casalegno era dunque per i terroristi un nemico pericoloso, non un simbolo. Proprio nel volerlo abbassare alla soglia di simbolo, deumanizzandolo, i brigatisti potevano sostenere il meccanismo psicologico della sua uccisione (come poi avverrà per l'altro giornalista Walter Tobagi).
“Ogni uomo è fatto di uomini. Sono loro la sua sostanza. Chi lo uccide li uccide tutti, strappa la lingua al suo mondo, che muore con lui. L’assassino lo sa.”
Il libro si chiude, dopo le pagine dedicate alla al lungo addio al padre, con le pagine molto toccanti in cui parla dei morti, delle persone care che lo hanno lasciato
“Ogni persona è insostituibile, ogni perdita oscura una parte dell'orizzonte.
Man mano che la vita procede, i morti occupano uno spazio sempre maggiore nella nostra vita, diventano la parte essenziale di noi stessi”.
E le ultime righe sono dedicate all'amatissima Betta.
Il link per ordinare il libro su ibs.
Technorati: Andrea Casalegno, Carlo Casalegno
Nessuno io mi chiamo; nessuno è il nome che mi danno il padre e la madre e inoltre tutti gli amici
06 luglio 2008
L'attentato di Andrea Casalegno .
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