05 febbraio 2009

La notte che Pinelli di Adriano sofri

- 12 dicembre 1969: una bomba esplode nella banca dell'Agricoltura di Milano. Non sarà la prima bomba della giornata, è segue altre scoppiate nell'estate e il 25 aprile.
- 15 dicembre: Pietro Valpreda viene arrestato con l'accusa di essere il responsabile della strage.
- Nella notte tra il 15 e il 16 Giuseppe Pinelli, in stato di fermo illegale in questura a Milano, muore cadendo dal 4 piano. E' l'inizio della strategia della tensione. La perdita dell'innocenza. L'inizio dei depistaggi e delle stragi di stato.

Ne "La notte di Pinelli" Adriano Sofri si interroga su quanto sia successo quella notte, nella stanzetta della Questura di Milano.

Ancora oggi, quale verità abbiamo sulla morte dell'anarchico Pinelli se non quella che ciascuno e tutti ci siamo costruita facilmente, e con più o meno gravi varianti a carico di coloro che lo interrogavano?
Pinelli non ha resistito alle torture morali e psichiche, e si è buttato giù dalla finestra: variante la più leggera. O non ha resistito alle torture fisiche, cogliendo il momento di distrazione degli astanti per buttarsi giù. O alle torture non ha resistito, morendo, ed è stato buttato giù.
Ipotesi, quest'ultima, che trova riscontro di probabilità nel più recente e accertato caso verificatosi negli uffici di polizia palermitani. Ed è da ribadire che un delitto cosi consumato "dentro" le istituzioni è incommensurabilmente più grave di qualsiasi delitto consumato "fuori". (Alberto Savinio diceva: "Avverto gli imbecilli che le loro proteste cadranno ai piedi della mia gelida indifferenza." Ma si possono dire soltanto imbecilli coloro che disapproveranno questa mia affermazione?)

E comunque: non è il momento di dire la verità sulla morte di Pinelli, restituendo onore alla memoria di Calabresi se, com'è stato detto, non c'entrava? Non è possibile trovare, tra chi c'era, un "pentito" che finalmente dica la verità?


Questo è quello che scriveva Leonardo Sciascia su L'Espresso sulla morte del ferroviere Giuseppe Pinelli. La 17 esima vittima della strage di Piazza Fontana.
"La notte che Pinelli" aggiunge qualcosa, su quanto è successo? No: Sofri stesso, nelle ultime pagine, dopo aver riproposto tutte le ipotesi, le dichiarazioni delle sei persone presenti nella stanza, le due istruttorie (del g.i. Amati e del g.i. D'Ambrosio), dopo aver fatto cadere e risalire più volte il corpo da quella finestra, lo ammette "Cosa pensi che sia successo quella notte, al quarto piano della Questura? Ti rispondo. Non lo so ".

Perchè leggere questo libro, dunque.
Primo per ricordare: chi ha comesso la strage, chi ha coperto, chi ha aiutato i responsabili della strage a sfuggire all'inchiesta.
Poi per mettere in luce il clima all'interno della polizia e della magistratura, che seguì sin da subito la pista anarchica (sbattendo letteralmente il mostro Valpresa in prima pagina).
Che ancora oggi non sa dare una spiegazione limpida e senza ombre alla morte di Pinelli.
Suicidio, come affermato inizialmente, anche dalle dichiarazioni dei brigadieri presenti che parlano di "balzo felino", "scatto improvviso".
Malore attivo, come sentenziato dal g.i. D'Ambrosio (sentenza con cui Sofri è molto critico)?

Prendendo come spunto il racconto della storia ad una ragazza di vent'anni, Sofri racconta, legge dei passi di atti giudiziari, cita testimonianze, articoli di giornali. E anche alcuni aspetti della vicenda poco noti (lameno a me, oggi).

Il saltafosso su Valpreda fatto dal commisario Calabresi ("Valpreda ha detto tutto").
Alcune divergenze sull'orario dell'interrogatorio (le 19:30 che diventano 22:30).
C'è poi spazio per la campagna diffamatoria contro il commissario Calabresi, da parte di Lotta Continua, il processo al responsabile Pio Baldelli, che si interrompe con la ricusazione del giudice da parte dell'avvocato Lener (difensore del commissario).
Infine il lungo e travagliato processo, spostato da Milano a Catanzaro, senza dare alla strage un nome ai responsabili (se si esclude il secondo processo portato avanti da Salvini).
Di questa campagna aveva già parlato Mario Calabresi nel suo libro "Spingendo la notte più in la": Sofri non si sottrae alle sue responsabilità (sebbene gli articoli citati siano scritti da altri). Non s ritiene responsabile penalmente dell'omicidio.

Io ho questo concetto della corresponsabilità: che se qualcuno traduce in atto quello che anch’io ho proclamato a voce alta non posso considerarmene innocente e tanto meno tradito. Ne sono corresponsabile. Solo di questo, del resto, e non di altro. Di nessun atto terroristico degli anni ‘70 mi sento corresponsabile. Dell’omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, “Calabresi sarai suicidato”. [pp. 213-214]

Parla del contesto in cui è maturata: del clima di diffidenza contro lo stato, contro la sinistra (la doppiezza della sinistra), contro tutte le ombre della storia, del linguaggio usato, dell'intransigenza linguistica.


Il vizio d’origine della nostra iniziazione rivoluzionaria – nostra, cioè di quelli della mia generazione che si sentirono rivoluzionari – derivò dal trovarci di fronte un vasto schieramento politico e sindacale che agiva di fatto all’interno dei rapporti sociali e della de­mocrazia politica «borghesi», ma continuando a parlare un linguaggio sovversivo. C’era una sproporzione scandalosa fra le parole e i fatti di quella sinistra «uf­ficiale». Non solo: ma poiché gli uomini tengono più alle parole che ai fatti, e a quelle restano più tenacemente fedeli, e dal tradimento di quelle si sentono più intimamente feriti, quando voci autorevoli dentro la sinistra ufficiale azzardavano sortite verbali che pro­vassero a ridurre la distanza fra l’ideologia e la pratica, il loro isolamento si faceva più forte. Era così per la «destra» del Pci, o prima ancora per il Psi e la sua aspirazione governativa, o per il sindacalismo più «riformista» (più riformista che riformatore, del resto).
Le burocrazie dirigenti della sinistra storica e i loro capi tenevano in ostaggio la «base» con la continuità di un linguaggio, ed erano a loro volta ostaggi dell’irriducibilità di quella base a nuove musiche e nuove parole. Questo reciproco sequestro era l’ortodossia. Quan­do arrivò per una buona parte della nostra generazione il turno di entrare in scena, sospinta da una con­giuntura internazionale senza precedenti, lo scandalo morale per la «doppiezza» della sinistra ufficiale, la scissione plateale fra teoria e pratica, si tradusse in una tensione urgente a colmare quel divario dal lato della pratica, dell’azione. Il volontarismo attivistico fu la carat­teristica saliente di quel nuovo estremismo giovanile, quando non si lasciò irrigidire dal dogmatismo ideologico. La distanza fra le parole e i fatti – il binario doppio, la simulazione rivoluzionaria e la pratica del quieto convivere – volemmo sanarla rieducando i fatti a cor­rispondere alle parole, cercando nell’azione la coerenza rinnegata. Questo valeva anche, e anzi a maggior ragione, per la questione della violenza. Il retaggio della violenza popolare, creduta necessaria, perché con­trapposta alla violenza di tiranni padroni e sfruttatori, e giusta, perché emancipatrice da una abitudine al­la servitù e al gregarismo, della violenza difensiva e del­la violenza levatrice di una storia nuova e di un uomo nuovo, questo retaggio era ben più antico e radicato del movimento operaio e del marxismo, c scendeva dal tronco della rivoluzione francese e dai rami del patriot­tismo risorgimentale e, fin nello stesso Sessantotto, della ribellione cattolica al privilegio e al potere. Piuttosto che rimettere in discussione le parole, noi le ripren­demmo e le rincarammo, come si raccoglie e si agita più fieramente una bandiera abbandonata nella fuga, e ci addestrammo a corrisponder loro nell’azione. Per molto tempo la nostra verità di rivoluzionari di fronte alla moneta falsa di chi continuava a scrivere la pa­rola rivoluzione sulla targhetta del suo ufficio ma guardandosi bene dal perseguirla nella vita, consistette anche in una mezzo comica mezzo patetica gara all’oltran­za delle parole: e se gli altri gridavano Vietnam libero noi gridavamo Vietnam rosso, e se chiedevano il Disarmo della polizia in servizio di ordine pubblico (potresti immaginare che alla vigilia della strage di piazza Fontana si stava per votare questa misura?) noi chiedevamo il Fucile agli operai. Era un gioco di quelli che prendono la mano. Le parole sono indulgenti, permettono un’oltranza infinita, al riparo dal passaggio al fatto. Le parole non sono pietre. Ma sono anche esigenti, e perfino esose, e a furia di sentirsi pronuncia­re e scandire e gridare presentano un loro conto. Le pietre non sono parole – ti rinfacciano a quel punto. E da lì in poi qualcuno non resta più al di qua del riparo, passa la linea che le separa dai loro fatti. «Seguile, le tue parole, fino al punto in cui trapassano nei lo­ro fatti». E chi oltrepassa quella linea, può essere semplicemente uno manesco, uno che ha avuto un’infanzia cupa, uno più frustrato o più fanatico; ma può anche essere uno dei migliori, uno che si costringe a fare quello che tutti proclamano doveroso fare, tenendosene al di qua, per viltà o pusillanimità o qualche al­tra debolezza. Di queste due genie di uomini (e di donne), e della gamma di sfumature che conduce dall’una all’altra, sono fatte le minoranze che nei tempi tempestosi prendono il primo piano, e possono trovarsi dalla parte giusta e dalla parte sbagliata, e diventare eroi popolari o terroristi messi al bando, e naturalmente la differenza fra la parte giusta e sbagliata è molto importante, e ancora di più la differenza fra la stagione della guerra vera e la stagione della guerra inventata, ma differenze così importanti non cancellano del tut­to l’affinità. [pp. 210-213]

Tutte le citazioni del libro sono prese da borislimpopo.
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Il gruppo creato su facebook.
Il libro su Sellerio editore.
Altri blog e giornali che hanno parlato di "La notte che Pinelli": Sbagliando s'impera, wittgenstein, Il giornale
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