Sono giunto ad una convinzione: buona
parte delle persone che oggi hanno celebrato l'anniversario della
strage di Capaci (dove morirono il giudice Falcone, la moglie
Francesca Morvillo e gli agenti della sua scorta), nemmeno hanno
capito bene cosa ci fosse da festeggiare. È diventato tutto un rito:
il 23 maggio, Capaci, gli hashtag #falconeeborsellino, la lotta alla
mafia, la guardia che non si può abbassare, lo sforzo per la ricerca
della verità.
Ma chi erano i magistrati del pool
antimafia? Chi erano Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta e
Chinnici e Caponnetto? Perché è stato così importante il loro
lavoro? Perché la mafia li uccise?
Tante domande a cui in genere nessuno
trova l'esigenza e il dovere di rispondere. Perché sono domande
scomode che costringerebbero il giornalista, il politico, l'esperto
di mafia (di solito esperto da salotto) a fare i conti con la mafia e
con lo Stato.
Meglio trincerarsi dietro le verità di
comodo che, a furia di essere ripetute, diventano l'unica verità.
Ovvero Falcone e Borsellino che
lavoravano e basta, senza fare dichiarazioni o rilasciare interviste,
senza cercare le luci della ribalta.
Ovvero Falcone e Borsellino che non si
immischiavano con la politica.
Mica come quelli oggi, ammalati di
protagonismo, che lanciano teoremi, che pretendono di condizionare la
politica e l'economia.
Basterebbe leggersi qualche libro che
parla di quello che sono stati i due giudici, il pool e il tribunale
di Palermo. Cominciamo col dire che pochi magistrati come loro sono
stati attaccati e denigrati da vivi. Per essere poi deificati quasi, ma da
morti.
Falcone bocciato al posto di capo
ufficio istruzione da un Giuda, come disse l'amico Borsellino.
Falcone bocciato al CSM, al posto di procuratore capo. Falcone
costretto a scappare da Palermo ed accettare un posto al ministero
della giustizia, pur di lavorare, pur di poter continuare ad essere
al servizio per il paese.
Borsellino e Falcone parteciparono a
convegni organizzati dai partiti, rilasciavano pure interviste anche
molto dure nei confronti della politica. Borsellino contro lo
smantellamento del pool fu chiamato a rispondere di fronte al CSM.
Falcone era presente alla puntata di Samarcanda dove un giovane
Cuffaro attaccava i magistrati che screditavano la Democrazia
cristiana. Vi ricorda qualcuno, oggi?
Falcone fu attaccato da amici o
presunti amici quando decise di andare a Roma e abbandonare la toga.
Borsellino fu attaccato ingiustamente
in un articolo dallo scrittore Leonardo Sciascia, perché promosso
come procuratore capo, perché un “professionista dell'antimafia”,
uno cioè che faceva carriera grazie alla mafia. Con Sciascia ci fu
modo di spiegarsi. Ma quanti usarono poi quell'articolo in modo
strumentale?
Fu il pool di Palermo ad inventarsi la
formula del concorso esterno in mafia: se ne dimenticano oggi quanti
criticano questa formula, che colpisce la mafia in uno dei suoi
gangli vitali.
Il rapporto con la politica.
Ancora oggi la politica si difenda
dalle accuse di complicità con la mafia. Almeno Confindustria in
Sicilia espelle chi paga il pizzo: ma la politica ancora deve farlo
questo passo. Tenere fuori gli impresentabili, i collusi, quelli a
disposizione, quelli che prendono i voti dalle famiglie promettendo
qualcosa.
E tutto questo nulla a che vedere con
le condanne: pensate in Sicilia a quel senatore che è stato ripreso
a braccetto col boss. Fedina penale pulita. Eppure proprio a politici
come lui si rivolgeva Borsellino quando spiegava ai ragazzi
a Bassano del Grappa:
Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell'ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia [...]. E c'è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l'ha condannato, ergo quell'uomo è onesto… e no! [...] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be' ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest'uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest'uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto! (citato in Lirio Abbate, Peter Gomez, I complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento, pp. 6-7)
Oggi gli stessi che
lo ricordano, da dentro le istituzioni, sono gli stessi che poi si
danno le pacche sulle spalle plaudendo alle riforme messe in atto:
come Berlusconi che negli anni passati si autocomplimentava per aver
stabilizzato il 41 bis (dopo averlo svuotato dall'interno), oggi
questo pastone frutto delle larghe intese si auto celebra per la
legge anticorruzione e per la legge sul voto di scambio.
Anche a loro va
l'invito a leggersi cosa scrivevano e dicevano di mafia e politica
nelle interviste, nei loro atti giudiziari: il 416 ter è stato sì
reso più chiaro, ma di fatto è stato depotenziato.
E sulla legge
contro la corruzione, è un passo in avanti, ma tardivo. Contrasta i
mafiosi aumentando le loro pene, ma non colpisce a sufficienza i
reati dentro la pubblica amministrazione.
E potremmo anche
parlare della responsabilità civile dei magistrati,
dell'atteggiamento di questa classe politica nei confronti
dell'inchiesta di Palermo sulla trattativa. Sul fatto che una persona
come Berlusconi sia ancora al centro della politica. Sulla difficoltà
da parte dei partiti nel fare pulizia al loro interno.
Coraggio, anche
quest'anno vi è toccato ricordare Capaci Falcone e tutti gli altri.
E domani? E dopo domani?
La mafia (o meglio
le mafie), sono organizzazioni che si insinuano nei punti deboli
dello stato: laddove lo stato è assente, è debole, troviamo loro.
Nel controllo del
territorio, nella richiesta del pizzo, nella riscossione dei crediti,
per la gestione dei rifiuti, per la raccolta dei voti. Per la
richiesta di un posto di lavoro.
Mafia e politica,
mafia e imprenditoria, si cercano, si trovano, per una convergenza di
interessi.
Sono collusi, come
spiega il procuratore Nino di Matteo nel suo libro.
Capire le ragioni
di questa convergenza significa mettere fine alle ragioni stesse
della (o delle) mafie.
C'è una questione
di fondo da capire: una certa politica e la mafia vogliono lo stesso
tipo di magistrato. Quello solerte col potente e forcaiolo col
piccolo delinquente. Il giudice burocrate, che non prende iniziative.
Che si limita al compitino.
E né Falcone, né
Borsellino, né altri magistrati in prima linea contro la mafia erano
così.
E per questo sono
stati uccisi.
Ma le loro idee continuano a vivere, camminano su altre gambe, grazie a quei giovani che ricordano. E che sono la speranza per un futuro senza mafia.
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