Perché
politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare
con la mafia.
Nino
di Matteo è un giudice del Tribunale di Palermo: assieme al
giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo ha raccolto in
questo breve saggio la sua esperienza nella lotta alla mafia. Dai
primi anni a Caltanissetta, quando vide per la prima volta il
vero volto della mafia:
“Il
vero volto della mafia l’ho intravisto per la prima volta una
mattina di vent’anni fa. Ero un giovanissimo magistrato della
procura di Caltanissetta…”.
È
la mafia che avvicina i giudici nei processi, che minaccia. È la
mafia capace di imbastire utili rapporti con la politica, come gli
spiegò un giorno il pentito Cancemi:
“Dottore,
lo sa cosa mi ripeteva Riina? ‘Senza i rapporti con il potere, Cosa
nostra sarebbe solo una banda di sciacalli’. Se non lo capite, non
potrete mai contrastarla”.
Fino
ad oggi, al processo sulla Trattativa Stato-mafia, dove alla sbarra
si trovano sia mafiosi che uomini delle istituzioni, con l'accusa di
aver ricattato lo stato, condizionandone la sua politica, le sue
decisioni, per una convergenza di interessi comune ai mafiosi e ai
politici ad essi legati.
Quelli
su cui Riina aveva deciso di vendicarsi dopo il maxi processo.
Riina
è uno dei maggiori nemici del giudice Di Matteo: le intercettazioni
con le minacce di morte lanciate dal carcere milanese sono chiare e
questo ha causato un innalzamento del livello di protezione.
Non
perdona una cosa al magistrato: il voler cercare la verità sugli
anni 1992-1994, la stagione delle bombe e dei ricatti. Le sue
esternazioni hanno l'obiettivo di “ribadire il ruolo che ha
svolto negli ultimi trent’anni e allontanare l’idea che sia stato
un pupo nelle mani di forze occulte annidate dentro lo Stato”.
Ma non
è solo Riina, contro. Nei confronti delle inchieste del Tribunale di
Palermo c'è una grossa insofferenza da parte delle istituzioni. Si
registra “una sorta di stanchezza e di fastidio nei confronti di
quelle indagini che miravano a scoprire in che modo la mafia sia
ancora ben presente dentro le stanze del potere.”
Oggi
le indagini di mafia vanno bene solo quando contrastano i pesci
piccoli delle organizzazioni, l'ala militare. I problemi sorgono
quando si cerca di alzare il livello dell'azione penale nei confronti
delle stanze del potere, dentro la finanza, dentro la politica,
dentro l'imprenditoria.
Sembra
di essere tornari ai tempi del giudice istruttore Chinnici cui il
procuratore Pizzillo
rimproverava di voler rovinare l'immagine della Sicilia.
Erano
anni in cui la mafia aveva ucciso il prefetto Dalla Chiesa, il
segretario della DC Mattarella, il compagno di partito Reina, il
segretario del PCI Pio La Torre. I giudici Terranova e Costa. Il
capitano dei carabinieri Basile e il vice questore Giuliano.
Eppure
la mafia non esisteva, era un teorema per screditare il partito della
DC.
Ci
sono voluti anni, inchieste, cadaveri eccellenti per imbastire il
maxi processo, e rivelare oltre all'unicità della mafia e delle sue
decisioni, anche i rapporti con la politica, con la finanza, con
l'imprenditoria.
Tutto
questo lo racconta, in modo preciso e chiaro, Di Matteo nei vari
capitoli: l'utilizzo di prestanomi e intermediari nei suoi rapporti
con i politici.
Come
Dell'Utri, garante del patto con l'imprenditore e poi politico Silvio
Berlusconi.
Come
Aiello, signore della sanità privata in Sicilia ai tempi di Cuffaro.
Come
Mandalà, il mafioso di Villabate che faceva da intermediario in un
progetto per un centro commerciale.
In
un capitolo si parla del rapporto, spesso all'impronta della
connivenza, tra chiesa e
mafia. Troppe volte la
chiesa ha voltato la testa dall'altra parte, garantendo ai boss quel
consenso sociale loro necessario sul territorio. Non lo cita
l'autore, ma possiamo dare almeno un nome, padre Agostino Coppola,
uno dei preti che celebrò il matrimonio di Riina.
Erano
pochi i preti come Don Pino Puglisi ieri e come Don Ciotti oggi, che
parlano ai mafiosi guardandoli in faccia. Con la serenità e la forza
di una fede che non a nulla a che spartite con Cosa nostra.
I
rapporti tra mafia e magistratura, mafia e forze dell'ordine.
Non possiamo negare che diversi magistrati, per paura, per ignavia,
per brama di potere si sono lasciati avvicinare e corrompere. Per
troppi anni era impossibile condannare i boss e i loro soldati, pure
colpevoli di delitti, per quel clima di impunità, per cui i processi
finivano in un nulla, per insufficienza di prove.
Certo,
assenza di una legge adeguata, incapacità di mettere assieme tutti
gli episodi per inquadrarli in un unico contesto. Ma anche altro.
Di
Matteo ricorda il caso del Questore Ignazio D'Antone, l'inchiesta
sulle talpe dentro la procura che indossavano una divisa dello Stato
(il maresciallo Riolo del Ros, il maresciallo Borzacchelli e Giuseppe
Ciuro della Dia).
E poi
l'indagine sul giudice Prinzivalli, i colleghi del procuratore
Gaetano Cosa che si rifiutarono di firmale carte che accusavano il
costruttore Spatola.
Per
finire con l'inchiesta sulla Trattativa:
il ricatto allo stato, portato avanti da mafiosi e uomini dello
stesso stato. Un ricatto che viene visto da molti come un teorema,
imbastito dal pm palermitani per farsi pubblicità.
Di
Matteo precisa nel libro quali siano le accuse contestate:
“la condotta che contestiamo ai soggetti istituzionali e politici – dice – è quella di aver assunto il ruolo di cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo nel prospettare i desiderata dell’organizzazione mafiosa, così concorrendo al vero e proprio ricatto che i boss stavano portando avanti nei confronti delle istituzioni”.
Fanno
paura le giustificazioni di molti, i quali sostengono che con la
trattativa si salvarono molte vite. Che in fondo, anche nelle guerre
si tratta col nemico. Che quella trattativa, sempre presunta
(nonostante i riscontri, nonostante la sentenza di Firenze al
processo Tagliavia), permesso di vincere una battaglia.
Dimenticandosi
che la battaglia era solo contro l'ala militare stragista dei Riina e
dei Bagarella. La guerra contro la mafia no, quella non l'abbiamo
vinta. La mafia ha solo cambiato pelle un'altra volta.
“Cosa nostra non verrà sconfitta in modo definitivo fino a quando ci sarà anche un solo mafioso che trova in un esponente del potere la disponibilità al compromesso”.
I cadaveri eccellenti.
Perché
la mafia arriva ad uccidere un magistrato, un politico, un prefetto,
sapendo che attirerà su di sé l'attenzione delle forze dell'ordine?
Per
una convergenza di interessi tra mafia e massoneria, tra mafia
e politica e finanza.
Di
Matteo spiega nel libro cosa si intenda per “terzo livello”:
non una entità superiore ai boss cui dava ordini, ma come una camera
di compensazione dove far incontrare personaggi di alto livello, con
cui concordare la fine del giudice Chinnici, poiché aveva
deciso di mettere fine al regno dei fratelli Salvo, grandi
elettori della DC nonché uomini d'onore della famiglia di Salemi. I
potenti esattori della Sicilia.
Stesso
discorso per Mattarella, che voleva mettere in discussione i
collaudati meccanismi di spartizione politico-mafiosa degli appalti e
che dava così fastidio a Ciancimino.
E poi
Costa, Dalla Chiesa, Cassarà: l'assassinio di queste persone “ha
avuto un unico comune denominatore: la rimozione chirurgica di quelle
anomalie che rischiavano di mettere in discussione l’operatività
del sistema.”
I
legami tra mafia e massoneria sono emersi dalla relazione di
Tina Anselmi sulla P2, dalle indagini sul caso Sindona e il suo
viaggio in Sicilia, sui segreti di Stefano Bontade. Massone era Pino
Mandalari il commercialista di Riina.
Ricatti,
segreti, informazioni riservate, rapporti privilegiati col potere: la
massoneria ha bisogno della mafia per controllare il territorio e la
mafia ha bisogno della massoneria per entrare in contatto con certi
circoli del potere, ha raccontato una volta il pentito Spatola, un
vero e proprio patto di scambio.
Il
ruolo del magistrato.
Gli
ultimi capitoli del libro sono dedicati alla “solitudine del
magistrato” quando deve indagare sul potere.
Perché
è ancora difficile portare avanti indagini sul rapporto mafia e
politica, col rischio che il proprio lavoro venga strumentalizzato,
che arrivino i veleni e le accuse.
Le
riforme messe in atto dal legislatore non hanno di certo aiutato il
lavoro dei magistrati: Di Matteo cita la norma nella riforma Mastella (e mai rivista) per
cui i pubblici ministeri possono occuparsi solo per dieci anni
d’indagini sulla mafia:
“Hanno appena il tempo di acquisire competenze, avviare una strategia giudiziaria e coglierne qualche risultato. Poi sono costretti a passare ad altro. Se negli anni Ottanta ci fosse stata questa regola, anche Falcone e Borsellino avrebbero rischiato di occuparsi di verande abusive. La lotta alla mafia deve fare ancora molta strada”.
Il
416 ter, sul voto di scambio, che rimane uno strumento inefficace
per le pene lievi con cui condanna il politico e perché impone che
sia provata l'intimidazione del mafioso.
I
reati contro la pubblica amministrazione poi, sono ancora considerati
reati minori, eppure essi indeboliscono lo stato dal suo interno, per
le raccomandazioni, per la corruzione, per l'assenza di un merito. È
proprio in queste pieghe che si inserisce la mafia: quanti mesi
abbiamo dovuto aspettare per avere una buona legge contro la
corruzione? E quella appena varata (dopo l'uscita del libro) rimane
un compromesso non soddisfacente.
Rimane
ancora fuori il tema della prescrizione, la possibilità di
usare agenti provocatori come nelle inchieste sul traffico di
droga, un meccanismo premiante per chi collabora con le indagini.
L'accusa
rivolta da una certa politica e da una certa stampa ai magistrati
come Di Matteo è di voler conquistare le luci della ribalta. Una
vera e propria campagna di delegittimazione è stata portata
avanti contro coloro i quali cercavano di indagare su mafia e potere,
su mafia e trattativa, su mafia e imprenditoria.
“Non bisogna temere i magistrati che sensibilizzano i cittadini al valore della legalità e alla bellezza della vera antimafia. Non si può stigmatizzare chi su questi temi cerca il consenso del popolo. Sono altri i magistrati di cui avere paura: quelli che ambiscono a compiacere i ricchi e potenti; quei sepolcri imbiancati che non perdono occasione per gridare che i giudici devono parlare solo con le proprie sentenze, e che poi improntano tali sentenze all'ossequio del più forte.”
Ma
sbagliamo se pensiamo che la lotta alla mafia sia solo una questione
di inchieste, riforme e leggi in materia. Lo diceva anche Falcone
nelle sue interviste: importante è il ruolo della società civile:
“Non può essere solo la magistratura a cercare di sollevare definitivamente i veli che sono stati scesi con sapienza a copertura di alcune delicate verità.L'azione deve essere molto più ampia. Tutti i cittadini devono continuare a pretendere giustizia, a controllare che magistrati e forze dell'ordine facciano di tutto per accertare la verità, qualunque essa sia.”
“Io
resto al mio posto. Non mi rassegno a questo stato di cose”: questo
dice Di Matteo nonostante le minacce, nonostante sappia dei progetti
di attentati nei suoi confronti, nonostante le parole di Riina.
Nonostante siano finiti i suoi anni nell'antimafia e ora potrebbe
veramente doversi occupare di verande abusive.
Infine,
le parole rivolte agli studenti:
«Io non so cosa accadrà» ho detto. «Ho soltanto una speranza: che conserviate la passione civile. Che non vi adeguiate mai all'andazzo prevalente in questo paese, sempre più insofferente alla giustizia. Un paese troppe volte insofferente alla verità, all'indipendenza della magistratura, alla tutela dei valori costituzionali.»Quella speranza è il mio sogno. Perché sono convinto che solo i cittadini possono cambiare sul serio a società, sconfiggendo finalmente la mafia, la corruzione, la mentalità dell'appartenenza e dell'ossequio al potere. Non bisogna mai smettere di coltivare questo sogno, alimentandolo con costanza, tenacia e passione. Spero quindi che ogni cittadino – giovane o meno giovane – continui a perseguire con forza i propri ideali, nel rispetto di quelli altrui.
Comunque vada, avremo combattuto per rendere più libero il nostro paese. E sarà stata una giusta battaglia. L'unica battaglia in grado di onorare i nostri morti e liberare la nostra terra, per portare a termine – tutti insieme e ciascuno nel proprio ruolo – quella rivoluzione culturale che spargerà nel nostro Paese il fresco profumo della libertà.
Libertà
che non potrà arrivare finché lo Stato, gli uomini delle
istituzioni, non avranno il coraggio di guardare dentro se stessi.
Prima che si arrivi ad un futuro in cui “mafia e sistema paese
siano una cosa sola”.
La
scheda del libro sul sito di Bur.
Le
recensioni del libro su Antimafia2000,
Micromega
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