Un caso del colonnello Anglesio
Incipit
“Doveva mantenere la calma. Era essenziale. Non farsi rtasportare dalla passione, né dalla rabbia. E doveva prendersi il suo tempo, perché tutto potesse accadere com'era giusto. Perché ci fosse il tempo di capire, di ricordare.
Per entrambi.
Perché c'è un tempo per ogni cosa.Per entrambi.Perché c'è un tempo per ogni cosa.Appoggiò il busturi sulla mola e aprì il rubinetto dosatore. L'acqua iniziò a gocciolare sulla lama e lui azionò il pedale della ruota. Movimenti ritmici, morbidi, mentre l'acciaio gemeva con un sibilo aguzzo.
Affilare un bisturi era un lavoro delicato: il filo doveva essere sottile, sottilissimo, per affondare come quando si sgozza un maiale. Per incidere la pelle con la stessa precisione e delicatezza di quando si sfiletta un pesce. Perché il bisturi è come un pennino. Deve saper scrivere. Sorrise appena, continuando a lavorare. Non era contento. Ma quel che andava fatto aspettava da tanto. Ed era venuto il tempo. Perché c'è un tempo per ogni cosa.Anche il tempo per uccidere”.
E' il primo romanzo ambientato a Genova
che mi capita di leggere: non potevo non colmare questa lacuna. In
fondo anche a questo servono i libri: permetterti di viaggiare,
stando seduti comodi dal salotto di casa (o dal treno dei pendolari
nel mio caso).
E il viaggio che DeFilippi fa
fare al lettore lo porta direttamente nella Genova dei primi anni
'50: ottobre 1952, per la precisione. Un ottobre dove l'estate sembra
non volersi chiudere mai, ed è anche bello girare per col sole che
scalda per questa città, schiacciata tra il mare e le colline, dove
in ogni piatto che si mette a tavola si fondono questi due mondi. Il
pesce dal mare e anche le verdure dalle campagne.
Siamo a Genova, dunque: il ricordo
della seconda guerra mondiale è ancora fresco, come anche il ricordo
della violenza della guerra civile tra partigiani e fascisti.
Un ricordo che per molti è un ricordo
di dolore, per altri magari di nostalgia. Per molti solo un desiderio
di vendetta.
Affonda in queste radici il noir di
Alessandro Defilippi: al centro della storia il colonnello dei
carabinieri Enrico Anglesio, uno che quelle pagine della nostra
storia le ha vissute in prima persona.
Gli anni del fascismo prima e la guerra
di liberazione poi, sui monti, nella brigata Garibaldi, assieme ai
suoi due fidati collaboratori, il maresciallo Vercesio e il
brigadiere Ferrari.
È lui che si deve occupare
dell'omicidio del professore Silvio Arieti, ucciso nel suo
appartamento. Non solo ucciso: l'assassino ha infierito a lungo sul
suo corpo su cui ha anche inciso una frase che sembra in greco:
“Erkete o Tanato ti e rrespettei
ma to trapanitu to koftero”.
Arriva la morte.
Cosa significa?
“Il colonnello fiutò ancora. Nessun odore di sudore, solo quello dolciastro del sangue. L'assassino doveva essere una persona calma, che faceva il suo lavoro senza ansie”.
L'assassino ha risparmiato la
domestica, rinchiusa in uno sgabuzzino e rapata a zero, ma non ha
abbandonato lo stabile. Perquisendo le cantine del palazzo, lo stesso
colonnello viene aggredito e l'assassino lo tramortisce dopo averlo
ferito ad un braccio.
“Paura: ora poteva confessarlo a sé stesso. Era stata paura: la stessa che aveva provato, come una fitta – una fitta al braccio, dove correva la cicatrice – nel sentire il peso della Beretta. Non ne aveva mai avuto tanta dai tempi della collina, quando si nascondeva nella boscaglia con Vercesi e Ferrari e sentiva le voci dei tedeschi tra le creste”.
Il professor Arieti, ex
insegnante di Anglesio e amico personale, era un vecchio liberale che
aveva giurato per il regime fascista solo pro forma. Che le ragioni
della sua morte siano da ricercare nel suo passato è chiaro a tutti:
ma perché quel rituale? Perché l'assassino ha rapato a zero la
domestica?
Mentre il colonnello è costretto ad un
lungo periodo di malattia, un altro morto. Questa volta un vecchio
fascista, Traverso, uno di quelli sopravvissuti al regime
nell'oblio grazie anche all'amnistia di Togliatti.
Anche lui ucciso col medesimo rituale,
sempre con quel bisturi, dopo aver subito lunghe torture:
“Poi c'era la scritta: incisa sulla schiena di Arieti e dipinta sul cartello in grembo a Traverso. Un messaggio, un segno. E lui non l'aveva ancora decifrato. Non ci aveva nemmeno provato, in realtà.Due delitti: l'uno la copia carbone dell'altro. Non aveva mai visto nulla di simile; né ne aveva mai sentito parlare. C'erano le stragi, familiari e no. Come quella di Rina Fort, a Milano, subito dopo la guerra. Una che ammazza la moglie dell'amante e i loro tre figli. Compreso un bambino di dieci mesi, trovato morto sul seggiolone. Ma erano delitti «normali», di cui si intuiva il movente: gelosia, questioni di eredità, vecchi rancori .. Questi no: sembravano un rito. Il punto di partenza era stato Arieti”.
Cosa
lega i due omicidi, sadici e inesplicabili? Un professore liberale
che era stato vicino ai partigiani e un torturatore fascista?
Perché
sembra che qualcuno, nell'arma, lo voglia tenere lontano dal caso?
Chi è l'uomo col trench che lo segue,
che gli lascia dei segnali, dentro casa?
“- Beh, ecco, c'è qualcuno a cui potrebbe far comodo che lei tardi a riprendere il lavoro?- E' la stessa domanda che mi sono posto io.- E che cosa ne pensa?- Che forse sarebbe meglio non saperlo. Ma purtroppo sono un tipo curioso”.
L'intrigo che viene svelato solo alla
fine. Quando il colonnello si troverà di fronte all'assassino e
dovrà fare delle scelte dolorose.
“Verrà la morte” è un noir
che viaggia sospeso. Sospeso tra passato e presente.
Sospeso come il suo protagonista: un
ufficiale dell'arma ormai sui cinquanta, vedovo per la morte della
moglie Laura, con problemi mentali, morta suicida un giorno del 1944,
dopo un volo in mare da una scarpata. Una morte a cui Anglesio non si
era mai rassegnato.
E ora il suo animo è come l'Italia,
sospeso a metà tra il desiderio di dimenticare il dolore e i traumi
alle spalle per potersi godere anche lui una nuova vita.
E il desiderio di pareggiare i conti
con certe tragedie del passato.
“Si accorse, d'un tratto, che in realtà desiderava lasciar perdere quella faccenda che gli era capitata per le mani. E gli era entrata nella carne con la lama di un bisturi o di uno stiletto. Troppa confusione tra passato e presente, troppi ricordi. Troppo coinvolgimento. Troppa paura, anche. E, soprattutto, troppo dolore. Ma on era solo del caso che era stanco. Non aveva più voglia: ecco il fatto. Né di vedere morti ammazzati, né di sospettare di tutti. Voleva star tranquillo, per pensare: per farla finita anche col ricordo di Laura”.
Un noir dove hanno
pari importanza tutti i sensi, per raccontare la storia. Gli odori,
che Anglesio usa per comprendere meglio la scena del crimine. I
sapori, come quelli del cibo. Fonte di piacere per il palato,
nutrimento e piacevole intermezzo nel racconto. E i colori di una
città che mi vien voglia di visitare.
“Viene la morte che non rispetta
Con la sua falce affilata
E presto ci annota sulla lista”
La scheda del libro sul sito di
Einaudi.
1 commento:
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