09 ottobre 2016

Il nodo al fazzoletto – Vajont


L'Italia degli anni '60 era molto diversa da quella di oggi. Ma ci sono storie, come quella della digadel Vajont e della tragedia di Longarone, che ci raccontano come noi italiani non sappiamo imparare dai nostri errori.
Sono passati 53 anni da quel 9 ottobre 1963 quando una frana si staccò dal monte Toc, dietro la diga del Vajont, sollevando un'onda dall'invaso d'acqua che solo in parte superò il ciglio della diga per abbattersi sui paesi alla base della diga. 2000 e più morti, interi paesi distrutti come Longarone.
« Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. [...] Solo la metà scavalca di là della diga, solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua... Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti. »

Se non ci fosse stato il racconto di Marco Paolini dell'ottobre 1997, in diretta tv dalla frana, nemmeno forse ce ne ricorderemmo più. Di quei morti. Di quella sciagura.
Di quella completa mancanza di rispetto per la natura, sia da parte dei costruttori di quella diga maledetta, la Sade di Venezia. Uno stato nello stato (sono le parole usate dal presidente della provincia di Belluno, Da Borso) contro cui non si poteva fare alcun rilievo.
Di quella ottusa stupidità, di quella cecità nei confronti del profitto, di fronte cui tutto passa in secondo piano, come la sicurezza delle persone.

Il racconto di Paolini è istruttivo in questo senso: le perizie nascoste o aggiustate, le prove di disastro lasciate nel cassetto (come quella del professor Ghetti), l'assenza di qualsiasi trasparenza da parte di un privato in concessione, che pure costruiva usando finanziamenti pubblici a fondo perso.
Eh si: la diga del Vajont, è come se l'avessimo pagata due volte.
La prima grazie ai fondi concessi la prima volta dal governo Mussolini al proprietario della Sade, che guarda caso era pure un ministro di quel governo. Il conte Volpi di Misurata (anche esempio di camaleontismo politico, dopo il '43 divenne antifascista in Svizzera), che inaugurò nel 1929 il principio per cui quando fai politica non devi dimenticarti della tua bottega.
La seconda volta, quando nel 1960 si è nazionalizzata l'industria elettrica (erano i primi esperimenti di un governo di centro sinistra), per cui l'Enel, il carrozzone statale si comprò l'impianto. E per venderlo al miglior prezzo possibile, per il venditore s'intende, ecco che serviva la prova d'invaso dove l'acqua doveva salire oltre la soglia di allarme. 700 metri sul livello del mare.

Conflitti di interesse, assenza di scrupoli morali e anche l'asservimento della classe politica, una buona parte, non tutta, nei confronti dei padroni veneziani, la Sade. Che poteva far spostare funzionari sgraditi del genio, come l'ingegner Desidera, se si permettevano di mettergli i bastoni tra le ruote.
Che si permetteva di querelare giornalisti sgraditi come Tina Merlin, colpevoli di raccontare la semplice verità: la frana, i pericoli per i paesi lungo le sponde del lago artificiale, i pochi soldi dati ai montanari di Erto e Casso per i terreni espropriati.
Articoli di Tina Merlin (presi dal sito di Federico Ferrero)

Articoli di Tina Merlin (presi dal sito di Federico Ferrero)

Tina Merlin su l'Unità (quella ancora di Gramsci) e poi nel suo libro (Sulla pelle viva - Come si costruisce una catastrofe”) la storia della guerra del Vajont, iniziata con la costruzione della diga e terminata con l'apocalisse della sera del nove ottobre 1963. Raccontò della prima frana, avvenuta due anni prima, di quella M che iniziava a mostrarsi (la forma della frana) delle scosse, dei sussulti nella montagna. Dei soprusi della Sade che procedeva nei lavori senza degnarsi di aspettare i permessi da Roma.

Altri giornalisti raccontarono la storia della “povera Longarone”, coi loro articoli belli, pieni di retorica, auto assolutori, nessuno ha colpa, “ah, se la natura ci volesse far guerra veramente” .. Giorgio Bocca, Dino Buzzati, Montanelli. Il meglio del giornalismo nostrano.
Un sasso è caduto in un bicchiere.
Nessuno ha colpa, nessuno poteva prevedere.
Più niente da dire o da fare.
La diga era ed è un'opera dell'ingegno umano.

E chi si permetteva, come la Merlin, di raccontare un'altra storia, un'altra “narrazione” dei fatti, era chiamato sciacallo..

Vi ricorda qualcosa tutto questo?
La grande passione della nostra classe politica per le grandi opere, quelle che segnano una data nella storia. Quelle portate avanti grazie ad ingenti risorse pubbliche da imprese private che lavorano senza gradire troppi controlli. Perché bisogna agire in fretta.
L'allegra commissione di collaudo”: così Paolini chiama la commissione scelta dal ministero per controllare i lavori della diga. Molti dei periti, erano stati a libro paga della stessa Sade.
Lo strano rapporto che hanno questi politici e soprattutto questi signori della costruzioni con la stampa, per cui spesso sono anche proprietari di giornali (la Sade lo era del Gazzettino).
Il considerare le grandi opere come volano della ripresa, della creazione di posti di lavoro, di PIL in crescita di diversi punti. Il prevalere dell'interesse privato nei confronti del pubblico.
Sono storie come quelle dell'alta velocità al nord, del TAV in Val di Susa, del ponte sullo stretto di Messina, del Mose a Venezia e del piccolo Mose a Como.
Ce le possiamo permettere, queste grandi opere in un paese a rischio sismico (e il terremoto del 24 agosto in centro Italia ce lo ha ricordato ancora), a rischio alluvionale, a rischio frane?
Anche ad agosto, a chi ricordava di come spesso in Italia (e anche ad Amatrice, all'Aquila..) si costruisca senza rispettare le norme si tirava fuori la parola sciacallo. Ci sono vittime, un po' di rispetto ..


Siamo rimasti a quell'ottobre '63, quando di fronte al miraggio del progresso, le 2000 vittime erano solo una voce del bilancio. Perché rappresentavano quell'Italia contadina di cui l'Italia non aveva più bisogno.

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