L'Italia degli anni '60 era molto
diversa da quella di oggi. Ma ci sono storie, come quella della digadel Vajont e della tragedia di Longarone, che ci
raccontano come noi italiani non sappiamo imparare dai nostri errori.
Sono passati 53 anni da quel 9
ottobre 1963 quando una frana si staccò dal monte Toc,
dietro la diga del Vajont, sollevando un'onda dall'invaso d'acqua che
solo in parte superò il ciglio della diga per abbattersi sui paesi
alla base della diga. 2000 e più morti, interi paesi distrutti come
Longarone.
« Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. [...] Solo la metà scavalca di là della diga, solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua... Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti. »
Se non ci fosse stato il racconto di
Marco Paolini dell'ottobre 1997, in diretta tv
dalla frana, nemmeno forse ce ne ricorderemmo più. Di quei morti. Di
quella sciagura.
Di quella completa mancanza di
rispetto per la natura, sia da parte dei costruttori di quella
diga maledetta, la Sade di Venezia. Uno stato nello stato
(sono le parole usate dal presidente della provincia di Belluno, Da
Borso) contro cui non si poteva fare alcun rilievo.
Di quella ottusa stupidità, di quella
cecità nei confronti del profitto, di fronte cui tutto passa in
secondo piano, come la sicurezza delle persone.
Il racconto di Paolini è istruttivo
in questo senso: le perizie nascoste o aggiustate, le prove di
disastro lasciate nel cassetto (come quella del professor Ghetti),
l'assenza di qualsiasi trasparenza da parte di un privato in
concessione, che pure costruiva usando finanziamenti pubblici a fondo
perso.
Eh si: la diga del Vajont, è come
se l'avessimo pagata due volte.
La prima grazie ai fondi concessi la
prima volta dal governo Mussolini al proprietario della Sade, che
guarda caso era pure un ministro di quel governo. Il conte Volpi
di Misurata (anche esempio di camaleontismo politico, dopo il '43
divenne antifascista in Svizzera), che inaugurò nel 1929 il
principio per cui quando fai politica non devi dimenticarti della tua
bottega.
La seconda volta, quando nel 1960 si è
nazionalizzata l'industria elettrica (erano i primi esperimenti di un
governo di centro sinistra), per cui l'Enel, il carrozzone
statale si comprò l'impianto. E per venderlo al miglior prezzo
possibile, per il venditore s'intende, ecco che serviva la prova
d'invaso dove l'acqua doveva salire oltre la soglia di allarme. 700
metri sul livello del mare.
Conflitti di interesse, assenza di
scrupoli morali e anche l'asservimento della classe politica, una
buona parte, non tutta, nei confronti dei padroni veneziani, la Sade.
Che poteva far spostare funzionari sgraditi del genio, come
l'ingegner Desidera, se si permettevano di mettergli i bastoni tra le
ruote.
Che si permetteva di querelare
giornalisti sgraditi come Tina
Merlin, colpevoli di raccontare la semplice verità: la
frana, i pericoli per i paesi lungo le sponde del lago artificiale, i
pochi soldi dati ai montanari di Erto e Casso per i terreni
espropriati.
Tina Merlin su l'Unità (quella ancora di Gramsci) e poi nel suo libro (“Sulla pelle viva - Come si costruisce una catastrofe”) la storia della guerra del Vajont, iniziata con la costruzione della diga e terminata con l'apocalisse della sera del nove ottobre 1963. Raccontò della prima frana, avvenuta due anni prima, di quella M che iniziava a mostrarsi (la forma della frana) delle scosse, dei sussulti nella montagna. Dei soprusi della Sade che procedeva nei lavori senza degnarsi di aspettare i permessi da Roma.
Articoli di Tina Merlin (presi dal sito di Federico Ferrero) |
Articoli di Tina Merlin (presi dal sito di Federico Ferrero) |
Tina Merlin su l'Unità (quella ancora di Gramsci) e poi nel suo libro (“Sulla pelle viva - Come si costruisce una catastrofe”) la storia della guerra del Vajont, iniziata con la costruzione della diga e terminata con l'apocalisse della sera del nove ottobre 1963. Raccontò della prima frana, avvenuta due anni prima, di quella M che iniziava a mostrarsi (la forma della frana) delle scosse, dei sussulti nella montagna. Dei soprusi della Sade che procedeva nei lavori senza degnarsi di aspettare i permessi da Roma.
Altri giornalisti raccontarono la
storia della “povera Longarone”, coi loro articoli
belli, pieni di retorica, auto assolutori, nessuno ha colpa, “ah,
se la natura ci volesse far guerra veramente” .. Giorgio Bocca,
Dino Buzzati, Montanelli. Il meglio del giornalismo nostrano.
Un sasso
è caduto in un bicchiere.
Nessuno ha colpa, nessuno poteva
prevedere.
Più niente da dire o da fare.
La diga era ed è un'opera
dell'ingegno umano.
E chi si permetteva, come la Merlin, di
raccontare un'altra storia, un'altra “narrazione” dei
fatti, era chiamato sciacallo..
Vi ricorda qualcosa tutto questo?
La grande passione della nostra classe
politica per le grandi opere, quelle che segnano una data nella
storia. Quelle portate avanti grazie ad ingenti risorse pubbliche da
imprese private che lavorano senza gradire troppi controlli. Perché
bisogna agire in fretta.
“L'allegra commissione di
collaudo”: così Paolini chiama la commissione scelta
dal ministero per controllare i lavori della diga. Molti dei periti,
erano stati a libro paga della stessa Sade.
Lo strano rapporto che hanno questi
politici e soprattutto questi signori della costruzioni con la
stampa, per cui spesso sono anche proprietari di giornali (la Sade lo
era del Gazzettino).
Il considerare le grandi opere come
volano della ripresa, della creazione di posti di lavoro, di PIL in
crescita di diversi punti. Il prevalere dell'interesse privato nei
confronti del pubblico.
Sono storie come quelle dell'alta
velocità al nord, del TAV in Val di Susa, del ponte sullo stretto di
Messina, del Mose a Venezia e del piccolo Mose a Como.
Ce le possiamo permettere, queste
grandi opere in un paese a rischio sismico (e il terremoto del 24
agosto in centro Italia ce lo ha ricordato ancora), a rischio
alluvionale, a rischio frane?
Anche ad agosto, a chi ricordava di
come spesso in Italia (e anche ad Amatrice, all'Aquila..) si
costruisca senza rispettare le norme si tirava fuori la parola
sciacallo. Ci sono vittime, un po' di rispetto ..
Siamo rimasti a quell'ottobre '63,
quando di fronte al miraggio del progresso, le 2000 vittime erano
solo una voce del bilancio. Perché rappresentavano quell'Italia
contadina di cui l'Italia non aveva più bisogno.
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