12 dicembre 2019

A cinquant'anni da Piazza Fontana – il dovere della memoria



Immaginate che paese avremmo potuto essere se, a cominciare da quel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969, la nostra storia avesse potuto scorrere libera, senza interferenze esterne ed interne, in mano alla sovranità del popolo, come recita la Costituzione.
Libera dagli strascichi del fascismo, che ancora occupava posizioni apicali dentro la macchina dello Stato (nelle Questure, come quella di Milano, nelle procure).
Libera dai vincoli degli accordi di Jalta (avendo perso la guerra) che bloccavano la politica nazionale impedendo qualsiasi ricambio politico, qualsiasi alternanza politica alla DC.
Liberi dalla presenza di tante formazioni neofasciste, sopravvissute alla fine della guerra civile, delle elezioni del 48, dell'avvento della democrazia.
Formazioni che si prestavano a fare da manovalanza per quelle forze che vedevamo col fumo negli occhi l'avanzata delle sinistre, gli scioperi e i cortei nelle strade per rivendicare maggiori diritti e salari. La richiesta da parte di studenti, insegnanti, perfino poliziotti, di un paese moderno che si liberasse una volta e per sempre di quel retaggio fascista che ancora resisteva, delle sacche di rendita parassitaria.
Un paese in cui il figlio dell'operaio o del contadino potesse laurearsi e salire quel benedetto ascensore sociale (ancora oggi bloccato tra l'altro).

Invece no.
I fascisti, il blocco atlantico, il blocco di potere che ha comandato l'Italia per tanti anni, hanno cercato di impedire tutto questo usando le bombe, gli attentati, le stragi. La strategia della tensione, termine coniato dal quotidiano inglese The Observer.
Destabilizzare, con la minaccia di un colpo di Stato come in Grecia (o come in Cile anni dopo), che mai sarebbe stato accettato dal governo americano, ma che serviva per mobilitare quei gruppi fascisti come Ordine Nuovo in Veneto, Avanguardia Nazionale a Roma, La Fenice a Milano.
Creare terrore, far si che la gente di fronte a questi attentati chiedesse allo Stato quell'ordine che solo un regime autoritario poteva dare.

Si parla della strage di Piazza Fontana, di cui oggi celebriamo il 50 esimo anniversario come di una "strage di stato", della nostra "perdita dell'innocenza": sono due espressioni in parte false.
La strage è stata possibile, come le successive fino alla bomba alla stazione di Bologna, grazie a complicità e protezioni di organi dello Stato: nei servizi segreti (il SID, l'Ufficio Affari Riservati), dentro le Questure e le prefetture (la falsa pista anarchica fu indicata sin dall'inizio dal prefetto di Milano in un telegramma al ministro la stessa sera), dentro le procure.

Ma ci sono stati anche pezzi dello stato che non si sono piegati ai depistaggi, non hanno voltato la testa dall'altra parte: penso ai magistrati milanesi come D'ambrosio, Salvini, Alessandrini; ai giudici veneti Stiz e Calogero (i primi a seguire la pista nera che portava agli ordinovisti Freda e Ventura); al giudice padovano Tamborino che indagò sul tentativo di golpe della Rosa dei venti.
Penso al carabiniere Alvise Munari e al commissario Juliano a Padova.

C'erano uomini dello Stato che erano fedeli alla Costituzione e altri uomini dello stato che invece erano fedeli solo a pezzi delle istituzioni, alle leggi, intese come l leggi contro l'avanzata del comunismo.
C'era uno stato da liberare dalla presa di una parte dello stato e non può venire in mente quello che scriveva Sciascia ne Il Contesto "Occorre liberare questo stato, da coloro che lo detengono".

Nonostante questo terrore, nonostante questo sangue, nella stagione che abbiamo chiamato degli anni di piombo, abbiamo avuto importanti riforme: lo Statuto dei lavoratori, l'istituzione delle regioni, la legge sul divorzio, sull'aborto (che metteva fine all'aborto clandestino), la fine dei manicomi.
Questo paese, alla fine degli anni sessanta stava scoprendo la voglia e la passione per la lotta, per l'impegno politico, per voler cambiare il volto a questo paese che aveva vissuto gli anni del boom come una breve stagione di felicità.
Stagione che però non aveva arricchito tutti gli italiani allo stesso modo.

La perdita dell'innocenza: questa Repubblica, non più giovane, non è stata mai innocente. E' nata dalla guerra di liberazione, dai partigiani, dall'esercito Alleato che ha sconfitto il nazifascismo ma anche dagli accordi con la mafia, dai ricatti successivi alla strage di Portella della Ginestra (anche qui, una strage attribuita alla sola banda Giuliano, quando si sa che erano presenti anche uomini in divisa).
Non è mai stata innocente per lo scandalo Montesi, per la corruzione che via via si è sempre mangiata pezzi del paese.

Cosa possiamo dire oggi, a cinquant'anni di distanza, di questa strage?
Possiamo ricordare il contegno dei milanesi la mattina del funerale: la reazione di pancia per il ripristino dell'ordine, che ci si aspettava non è arrivata.
In pochi, nonostante il linciaggio mediatico (le fake news non sono una invenzione di oggi) contro gli anarchici e Valpreda, in pochi credevano veramente alla pista rossa.
Da questa menzogna, dal depistaggio di Piazza Fontana, è nata l'idea in molti italiani e anche in quei giornalisti che poi hanno raccontato quel contesto (Cederna, Pansa, Bocca, Stajano), che non si poteva fidare ciecamente delle istituzioni.

Le nostre istituzioni ancora oggi si portano addosso la colpa: la colpa delle morti, delle coperture garantite ai neo fascisti (responsabili delle stragi, ormai possiamo dirlo, dopo le sentenze della magistratura), quella dei vertici dei servizi (Viceli, Maletti, Umberto D'Amato, Henke) che sapevano ma hanno coperto, hanno tradito la Costituzione che è la madre di tutte le leggi.
Le nostre istituzioni si portano ancora addosso la colpa di non aver voluto rendere pubblici tutti gli atti raccolti dai servizi (e anche dai carabinieri), nemmeno oggi che il muro di Berlino è caduto.
La legge istituita dal governo Renzi è solo un timido passo in avanti, ma delega ai servizi stessi la scelta di quali atti rendere pubblici o meno; nessun atto è stato reso pubblico su Gladio, Nuclei di difesa dello stato, Rosa dei venti (le strutture segrete messe in piedi per questa guerra non ortodossa).

Di Piazza Fontana e di tutte le altre stragi (Italicus, Brescia, Bologna..) non conosciamo ancora i mandanti ma è chiaro il contesto, i responsabili (per Brescia, Peteano e Bologna esiste anche una sentenza definitiva di colpevolezza): queste storie ci hanno insegnato quanto possa essere fragile una democrazia, di come le nostre libertà possano essere sempre minacciate, di come spesso si debba dubitare delle versioni ufficiali.

C'è poi un'altra constatazione:
Per quindici anni l’Italia è stata trasformata in un campo di battaglia da terroristi armati, spesso in combutta con apparati dello Stato. Eppure ce l’ha fatta, perché ha combattuto e vinto difendendo valori condivisi scritti nella Costituzione, e proprio grazie a questi imponendosi. Bisognerebbe ricordarsene ogni volta che qualcuno cerca di rimettere in discussione quelle fondamenta. [Dal libro Gli anni delle stragi - l'Espresso]

Oggi la carta della paura è ancora usata per condizionare le persone, per creare confusione e impedirgli di vedere le cose come stanno.
Non esiste più una cortina di ferro a separare il mondo in due, ma questo ha reso il campo di battaglia degli interessi sovranazionali ancora più complesso.
L'influenza cinese, quella russa, la presenza americana sul nostro territorio, l'aderenza alla Nato ..

Coltivare il vizio della memoria è la nostra medicina.
Non dimenticare: quelle morti, il coraggio di chi ha voluto fare luce sui misteri, il dolore dei familiari.

Alcuni consigli di lettura:
- Abbinato con l'Espresso è uscito il volume “Gli anni delle stragi”: una raccolta di articoli pubblicati sulle stragi degli anni tra il 1969 e il 1984
- Piazza Fontana, il primo atto dell'ultima guerra italiana di Gianni Barbacetto
- La bomba Enrico Deaglio
- L'Italia delle stragi a cura di Angelo Ventrone

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