L'ascesa al potere del contadino di Corleone: dalla casa di rua della Piana, fino al covo nel residence in via Bernini 54 a Palermo.
Totò Riina, il capo dei capi: la sua storia meritava di essere raccontata, spiegano nella premessa i due giornalisti Bolzoni e D'Avanzo. Dagli anni della guerra mondiale, quando si ritrovò capofamiglia per la morte del padre nel 1943, fino alla cattura a Palermo, da parte degli uomini del capitano Ultimo, il 15 gennaio 1993.
"Chi siete? Chi vi manda?
"Ci mandano falcone e borsellino."
Con una postfazione, nell'edizione uscita nel 2010, che racconta dei figli di Totò, Giovanni e Salvo, entrambi finiti in carcere per mafia e dei nuovi equilibri dentro Cosa Nostra. Dobbiamo aspettarci una nuova guerra per stabilire chi prenderà il posto di Provenzano (arrestato nel 2006), l'arrivo degli scappati dall'america (gli Inzerillo) cambierà il peso delle famiglie in Sicilia? Cosa ha in mente Matteo Messina Denaro?
Il libro racconta della carriera criminale dentro Cosa Nostra di Riina che, dai campi attorno a Corleone dove lavorava col padre, è arrivato a comandare tutta Cosa Nostra: una carriera nel segno del terrore, della violenza e delle tragedie.
Totò il corto, Totò il viddano (come erano chiamati in modo sprezzante i mafiosi che venivano dalle province dell'interno, dai mafiosi palermitani): Totò la serpe che cresciuto nella banda di Luciano Liggio, sapeva già dove voleva arrivare. A comandare su tutti, senza nessuna commissione o cupola da convocare.
Il capo dei capi mette uno dietro l'altro le vittime della sua brama di potere, la scia di sangue: dal sindacalista Placido Rizzotto, ucciso e fatto sparire nella foiba di Rocca Busambra, al dottor Michele Navarra, ucciso per prenderne il posto nel 1958.
Ucciso assieme ai mafiosi della sua banda, con la stessa assenza di pietà, come avrebbe poi più tardi fatto con gli Inzerillo, i Bontade, i Badalamenti nella seconda guerra di mafia. Sterminati finchè non ne sarebbe rimasto vivo nessuno.
In mezzo una scalata al potere fatta a piccoli passi, mettendo zizzania tra le famiglie, facendo il "tragediatore", ovvero rivelando ad uno complotti inesistenti orditi da altri, per mettere una famiglia contro l'altra. Altro che uomini d'onore, altro che rispetto: spesso Riina non faceva conoscere all'esterno della sua famiglia nemmeno gli uomini d'onore che combinava.
Riina istituì, una volta arrivato in cima alla cupola, un regno di terrore: non solo sterminò tutti i nemici, ma la stessa sorte toccava anche a chiunque si permetteva di disobbedire ad un suo ordine. O cercava di crearsi un suo spazio: non era più tempo per la vecchia mafia dove i capi si parlavano tra loro per trovare un accordo. Ora tutto era nelle mani di una persona sola: per gli altri era pronta una corda, e una vasca di acido con cui far sparire il corpo.
Nel libro un aspetto che viene ripetuto più volte riguarda la differenza tra i corleonesi e le altre famiglie: Cosa Nostra è una cosa, i corleonesi un'altra. Riina si fidava di poche persone : Luciano Liggio, Binnu Provenzano, Calogero Bagarella (fratello di sua moglie Ninetta) e poi Leoluca Bagarella. Un vincolo consolidato anche da legami matrimoniali: Bagarella fifanzato della sorella di Totò, quest'ultimo fidanzato della sorella di Calogero. Come un clan, come una tribù. Vito Ciancimino, il figlio del barbiere di Corleone, importante esponente della DC siciliana: uomo del sacco di Palermo (assieme a Lima, al ministro Gioia, al costruttore Vassallo) nelle mani dei corleonesi.
Ma "Il capo dei capi" racconta di tanti altri personaggi attorno ai boss: come Ninetta Bagarella, la "maestrina della mafia", la donna innamorata del suo Totò, che gli diede 4 figli registrati tutti regolarmente all'Asl. Mario Francese, il giornalista che da prima seguì la crescita di questo gruppo criminale così anomalo. Il commissario Mangano, arrivato a Corleone con la corriera per arrestare i responsabili dell'omicidio di Placido Rizzotto.
Mario Vitale, il primo pentito della mafia: pentito in senso proprio, lui che era cresciuto in un contesto mafioso fatto di omicidi, estorsioni, violenza.
I mafiosi della vecchia mafia, tutti spazzati via dall'orda dei barbari coi "peri incritati": Peppe di Cristina, Giuseppe Calderone, Michele Greco, il doppiogiochista, Tano Badalamenti, Totò Inzerillo, Stefano Bontade e il boss dei due mondi Tommaso Buscetta. Quello che con le sue rivelazioni permise ai giudici del pool di Palermo e al magistrato Giovanni Falcone, di vedere da dentro cosa era Cosa Nostra, quali le sue leggi, quale la sua struttura.
Dall'altra parte della barricata, giudici, poliziotti, carabinieri, giornalisti: Pietro Scaglione, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rocco Chinnici. Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuele Basile, Giuseppe Russo, Ninni Cassarà, Roberto Antochia, Calogero Zucchetto, Boris Giuliano.
Il giornalista del Giornale di Sicilia Mario Francese, che aveva intuito fin da subito la pericolosità e le ambizioni di questi criminali che sapevano nascondersi bene da contadini.
La scia di omicidi politici: Dalla Chiesa, Piersanti Mattarella, Michele Reina, Pio La torre, Salvo Lima ....
Mai la mafia, prima di allora aveva aperto una sfida di questo genere con lo stato : con lo stato si tratta, non si spara .. dicevano i mafiosi vecchio stampo. Non così la pensava Riina, Il corto diceva ai suoi uomini : "alle volte quando il dito ti fa male e meglio tagliare tutto il braccio".
Una scia si sangue che, come pensava anche Buscetta, faceva intravedere l'ombra di qualcos'altro dietro i corleonesi.
L'ombra di un'entità, di un potere superiore nello stato che usò Cosa Nostra, una forza fuori dallo stato, per i propri interessi politici.
Dell'esistenza di questo Quarto Livello non c'è ancora la prova: esiste solo una cartolina che Vito Ciancimino si sarebbe mandato, con la lista di nomi di importanti uomini dei servizi, ministri della Repubblica, che avrebbero avuto rapporti con la mafia. Ma a prescindere da questo, troppe domande nascono dalle pagine del libro: chi ha protetto la latitanza per tanti anni ad un personaggio di questa ferocia? Come è stato possibile che per anni tutti i grossi processi per mafia (spostati da Palermo per legittima suspicione) siano finiti nel nulla? Il processo di Bari del 1969. Il processo dei 114 a Catanzaro per la strage di Ciaculli.
Come mai si sono dovute aspettare le morti eclatanti dell'onorevole Pio La Torre e del prefetto Dalla Chiesa per arrivare ad una legislazione antimafia efficace, come la legge Rognoni La Torre sulla confisca dei beni, e il 416 bis (che istituiva finalmente il reato di mafia)?
Come mai si è dovuto arrivare al maxi processo di Palermo istruito dal pool di Antonino Caponnetto nel 1986, per avere le prime condanne all'ergastolo per reati di mafia?
Come mai lo stato si è dimostrato così inefficiente (per non dire altro) negli anni in cui a Palermo si abbattevano villini liberty per costruire casermoni, negli anni in cui si trafficava e raffinava eroina (e che rese le famiglie ricchissime in pochi anni), negli anni della prima e della seconda guerra di mafia (un migliaio di morti e più tra il 1981 e il 1983)?
Ci sono ancora troppe cose da chiarire. Anche se adesso i due vecchi boss sono in carcere. Ora è tempo per un'altra mafia, meno rumorosa, meno “viddana” nell'aspetto: una mafia capace di entrare nell'economia reale, di entrare in prima persona nella politica e nelle amministrazioni locali.
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Technorati: Attilio Bolzoni e Giuseppe D'Avanzo