Il 27 gennaio 1945 l'esercito russo
entrava nei cancelli del campo di concentramento di Auschwitz:
i tedeschi avevano lasciato già il campo 10 giorni prima
abbandonando i pochi detenuti ebrei al loro destino.
Tra questi, pochi e fortunati, lasciati
vivi non per merito o capacità ma anche per fortuna o destino,
Primo
Levi. Che era stato catturato per la delazione di un italiano
e consegnato agli aguzzini nazifascisti nel dicembre 1943: passando
prima per il campo di
Fossoli, Levi arrivò nel lager di
Auschwitz Monowitz, lager satellite del complesso di Auschwitz e sede
dell'impianto Buna-Werke, nel marzo 1944, varcando in una notte
gelida il cancello con la scritta
“Arbeit macht
frei”.
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un
no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
“Se
questo è un uomo”
è il racconto della sua detenzione, della sua discesa agli
inferi, del suo non essere più uomo: un non-uomo in mezzo ad altri
non uomini. Un
Haftling senza più nome, ma un numero 174.517,
da imparare in fretta per pronunciarlo di fronte alle guardie e ai
kapos, pena botte e bastonate.
Che soffre qualcosa che non può
essere nemmeno definito “fame”, “freddo”, “paura”: non
ci sono parole per descrivere quello che quotidianamente, per mesi e
mesi, dall'inverno alla primavera all'estate fino al nuovo inverno,
Primo Levi ha visto e documentato qui.
Un viaggio nell'inferno
(quello Dantesco, spesso citato nel libro, come il canto di Ulisse)
che la mente umana fa fatica a comprendere: un inferno in cui la
differenza tra la vita e la morte la fa il caso, il capriccio di un
SS che non ti seleziona per il “camino”, il destino che ti
consegna ad un incarico meno gravoso (come capitato a Levi, appunto,
finito nel laboratorio chimico del dottor Pannwitz col
Kommando 98, perchè laureato in chimica) rispetto a quello assegnato ad un altro compagno.
Spostare tubi di acciaio nel fango, sotto la neve e il vento gelido
dei Carpazi.
Allora per la prima volta ci siamo accorti che
la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la
demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica,
la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di
così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e
non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le
scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci
ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se
vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di
fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali
eravamo, rimanga.
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Un inferno in cui ogni non
essere del campo doveva imparare subito la legge del campo: non fare
domande, mettersi nella posizione giusta nella fila per la zuppa,
difendere con le unghie tutti i beni di cui si è in possesso,
guardarsi dal vicino che alla minima disattenzione potrebbe rubarti
la gamella, il cucchiaio, il pezzo di pane che ti sei tenuto
nascosto.
Come tutti quelli che sono riusciti a sopravvivere,
anche Levi imparò la parola “organisacja”, il traffico
illegale di merce da e fuori il campo, l'unico modo che aveva una non
persona di sopravvivere alla non vita del campo. Sempre che uno
avesse voglia di sopravvivere: quanti ne ha visti, Levi, di non
uomini che si lasciavano morire nella fatica del lavoro quotidiano.
Distruggere l'uomo è difficile,
quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci
siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da
parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non
parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.
E infine, si sa che sono qui di
passaggio, e fra qualche settimana non ne rimarrà che un pugno di
cenere in qualche campo non lontano, e su un registro un numero di
matricola spuntato. Benché inglobati e trascinati senza requie dalla
folla innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e si trascinano
in una opaca intima solitudine, e in solitudine muoiono o scompaiono,
senza lasciar traccia nella memoria di nessuno.
Pag 188
Un
inferno in cui, come in quello dantesco popolato da diavoli delle
Malebolge, anche tra i detenuti ci sono caste, la gerarchia
delle Prominenze: ci sono i detenuti per reati comuni, le
stelle verdi, con incarichi di Kapo e capo baracca, i detenuti
politici con la stella rossa e infine gli ebrei, con la stella
gialla.
E anche tra questi ultimi, i “sommersi e i salvati”,
come li chiama l'autore. I sommersi: quelli morti nel campo
senza lasciar traccia (senza nessun ricordo dietro, che la memoria è
bandita nel campo)
La loro vita è breve ma il loro
numero sterminato; sono loro, i Musulmänner, i sommersi, il nerbo
del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre
identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta
in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire
veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la
loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi
per comprenderla.
La persuasione che la vita ha uno
scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della
sostanza umana.
Pag 113
E i salvati: quelli che seppero
adottare diverse strategie per riuscire a sopravvivere.
L'arte
dell'ingegno e dell'astuzia, anche denunciando altri compagni pur di
prenderne posto o un premio.
Curando l'aspetto in modo da essere
considerati diversi e superiori dalla massa degli altri.
Tra i
salvati anche quelli cui il fisico forte rendeva indistruttibili alle
fatiche del lavoro e quanti sapevano usare la pietà come arma, per
circuire i prigionieri di guerra inglesi (che vivevano in condizioni
nettamente migliori).
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da
voi.
Non c'è desiderio di vendetta,
nelle pagine di questo libro, dove l'aspetto più sorprendente
forse è l'amarezza di fondo, il pessimismo del dover vivere
senza poter pensare che all'oggi quotidiano, a come sopportare il
freddo e il vento, a come sfuggire le fatiche (gli stratagemmi per
recuperare del cibo).
La psicologia del non-uomo, abbruttito
costretti a non-vivere secondo regole complesse e
incomprensibili:l'assenza di pietà, se non in poche e fidate
persone, la necessità di non potersi curare degli altri e per
entrare nel gruppo dei privilegiati che, dentro questo inferno,
riusciranno a vedere il domani.
Purtroppo, questo è stato.
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