Il Corriere della Sera nel racconto del
suo storico giornalista.
Leggendo il libro di Raffaele Fiengo
sui quasi cinquant'anni di storia del Corriere, si comprende come la
parola “cuore” nel titolo abbia qui una duplice valenza.
Il cuore, ad indicare la
passione con cui il giornalista, e anche rappresentante sindacale, ha
svolto il suo lavoro di giornalista, non un lavoro qualsiasi, a
qualsiasi prezzo per un giornale qualsiasi.
Ma cuore è inteso anche nel
senso di parte centrale nel potere: una democrazia è veramente tale
se i suoi cittadini sono persone informate, libere, consapevoli dei
diritti e con tutti gli strumenti a disposizione per giudicare chi
governa.
L'informazione sta alla democrazia come
il famoso canarino della metafora di Gore Vidal, che avvisa il
minatore quando l'aria non è più respirabile.
Questo spiega l'importanza di una
libera informazione e, di riflesso, i continui attacchi subiti dal
Corriere stesso, nel corso della sua vita: ai tempi del primo
fascismo, quando direttore del giornale era Luigi Albertini,
ma anche gli attacchi più recenti, che costarono la testa del
direttore Ferruccio De Bortoli (due volte), per gli attacchi
da Palazzo Chigi.
Ma gli attacchi possono avvenire anche
in modo più subdolo, come quando dentro il Corriere si allungò
l'ombra della Loggia P2 di Licio Gelli. Quando l'indipendenza
del direttore e dei giornalisti fu messa in discussione, quando la
proprietà vera del giornale si discosta da quella ufficiale, grazie
a giochi societari, azioni passate da una mano all'altra.
Per difendere questa indipendenza, che
è anche la nostra garanzia come cittadini, Raffaele Fiengo si
inventò nel 1973 la “società dei redattori”
all'interno del gruppo:
“aveva la forma di una «società a responsabilità limitata», una SRL. Ogni giornalista entrava pagando una cifra simbolica, 5000 lire. Attraverso una possibile intesa con Giulia Maria Crespi [l'editore nei primi anni '70], i redattori avrebbero potuto prendere una quota nominale della proprietà per ancorare la valutazione giornalistica alcuni atti dell'amministrazione che potevano essere significativi per il giornale”.
Nel 1974, assieme al nuovo direttore
Piero Ottone (che aveva preso il posto di Giovanni
Spadolini, “licenziato come un lacché” dalla proprietaria
Giulia Maria Crespi) vede luce lo “statuto dei giornalisti”:
“un documento formale, il primo di questo genere in Italia, in cui la proprietà del giornale – e, in quella fase storica, quando si parla di proprietà si parla anche di editore – mise per iscritto un impegno ad accettare la consultazione preventiva nella nomina dei direttori”.
Erano gli anni in
cui si assisteva ad una guerra per prendersi i giornali in Italia:
sul Corriere si estendevano le mire di Cefis e della sua Montedison,
una figura che faceva poco piacere a giornalisti come Fiengo, che già
possedeva Il Messaggero a Roma.
Gli Agnelli
possedevano la Stampa (detta la bugiarda, sebbene la famiglia Agnelli
abbia sempre dato garanzie di libertà ai suoi direttori).
Il gruppo Sir di
Rovelli si comprava La Nuova Sardegna.
Attilio Monti aveva
Il resto del Carlino e La Nazione a Firenze..
Le mire di Cefis
vengono bloccate nel 1973 quando nel capitale entrano Agnelli e
Moratti, sulla prima pagina del 29 maggio 1973 si potevano leggere i
comunicati dell'editore Crespi, il comunicato del Comitato di
Redazione e un editoriale “Liberi come prima”: è la famosa Magna
Charta, dove veniva messo nero su bianco “indipendenza delle
pubblicazioni e dei giornalisti da ogni gruppo di pressione”.
Se un giornale è
libero da condizionamenti è più forte sul mercato, specie oggi
quando le informazioni arrivano da tutte le parti anche
gratuitamente: per essere credibile, deve dare informazione di
qualità, sia su carta che sulla rete.
Credibile in che
senso?
Sono gli anni della
conduzione del liberale Ottone, in cui sulle pagine del Corriere
compaiono in serie gli articoli di Pier
Paolo Pasolini (“Io so ..”, “Perché un
processo..”...), la serie di inchieste di Giampaolo
Pansa sui padroni della città e il clientelismo al sud dei
signori dei voti (Gava, De Mita).
Sebbene l'articolo
Che cos'è questo golpe fosse rimasto nel cassetto del direttore
Ottone per diversi giorni, alla fine fu pubblicato, anche per le
insistenze di Fiengo, che procurò al direttore un articolo di
Prezzolini per pareggiare i conti.
L'arrivo dei Rizzoli.
Nel 1974, oltre all'uscita dal Corriere
di Montanelli (assieme ad un gruppo di giornalisti), si registra
l'ingresso nel Corriere dell'editore Rizzoli, che subentra alla
Crespi come proprietario, ma, lo si scoprirà poi, è solo una
questione di facciata. Dietro ci sono i soldi della Montedison.
Come si scoprirà poi che, nell'accordo
tra Rizzoli e Montedison scoperto da Fiengo mentre era consulente
della Commissione P2, si stabiliva che Rizzoli Spa “si impegna a
nominare il responsabile del settore economico del Corriere in
persona gradita a Montedison”.
Non solo, Fiengo, scopre che il
Corriere si impegnava a sostenere “l'attività industriale e
commerciale di Montedison Spa e dell'interno del gruppo..”.
Altro che indipendenza.
Gli anni della conduzione di Franco di
Bella, degli articoli firmati da Maurizio Costanzo, delle notizie dal
sudamerica che spariscono. Delle autointerviste a Craxi e
dell'intervista a Licio Gelli, preparata come un pacchetto tutto
compreso coi sottotitoli da Costanzo.
Gli articoli firmati da Silvio
Berlusconi e presentati come un qualsiasi editoriale economico
finanziario.
Come è stato possibile che non ci
siamo accorti di quanto stava avvenendo – questa la giusta
riflessione di Fiengo (e di altri giornalisti come lui in quegli anni
in redazione).
Gli articoli che, con tono di sfiducia,
tendevano a raccontare in modo espressamente negativo scuola e
sanità. Gli elogi ai generali e all'esercito, che venivano
presentati come moderni manager tesi a salvare le vite umane dopo il
terremoto in Irpinia o a riportare la democrazia in Argentina.
E anche altri episodi che letti con
calma, fanno venire la pelle d'oca: le telefonate di Fiengo che
venivano registrate a sua insaputa, Antonio Padellaro che fu scortato
da uomini di Gelli dopo una serie di articoli pubblicati sul
sequestro Moro.
Nessuno si accorse dell’inquinamento
sotterraneo che stava inficiando l’autorevolezza del Corriere: fino
all'inchiesta dei magistrati Turone e Colombo, la perquisizione a
Villa Wanda, la scoperta delle liste dei membri della Loggia P2, quei
963 nomi in cui comparivano generali, banchieri, giornalisti (tra cui
Costanzo, Trecca e il direttore Di Bella), politici, imprenditori
(come Berlusconi), ministri ….
Lista che venne pubblicata anche dal
Corriere, si, ma con quei nomi messi uno accanto all'altro, senza una
classificazione che aiutasse il lettore, un modo per dare la notizia
ma renderla illeggibile.
Di Bella che era il capo cronista già
citato da Fiengo per Piazza Fontana: era lui, assieme a Zicari, che
aveva portato al Corriere dell'informazione la pista del ballerino
anarchico, Pietro Valpreda, come autore della strage. Il mostro
sbattuto in prima pagina...
Il dopo Di Bella, fu affidato al
collega Alberto Cavallari che,
per le cronache relative alla P2, decise di affidarsi ai lanci
dell'agenzia Ansa:
“Per decisione del nuovo direttore, e con il consenso dell’organismo rappresentativo dei giornalisti, questo lavoro quotidiano fu svolto dall’Ansa, in quanto la si riteneva più libera, non condizionata, rispetto allo stesso Corriere della Sera”.
Una scelta difficile che testimonia delle difficoltà del giornale in
quei mesi, in quei anni.
Da
Cavallari ad Ostellino e
poi a Ugo Stille: nel
1998 fino all'arrivo come presidente di RCS al posto di Ronchey,
anche grazie ai soldi della generosa buonuscita dalla Fiat, 105
miliardi di lire in contanti, che gli consentono di dire ai
giornalisti “La garanzia dell'indipendenza del Corriere
della Sera sono io!”.
Non
a caso, il capitolo dedicato a questi anni si chiama
“Il giornalismo in cerca di sé stesso”,
dopo
lo scandalo P2: nuovi modelli che sono quelli ispirati al modello
liberale di cui parlava Luigi Einaudi.
La
chiave del giornalismo
è la sua indipendenza: indipendenza garantita da un comitato di
fiduciari
“composto da uomini di provata stima – con l'obbligo di approvare o meno la nomina di nuovi direttori e ogni trasferimento di azioni, assicurando in tal modo l'avvenire dei giornali.”.
Qualcosa
di non molto lontano dal modello che lo stesso Raffaele Fiengo aveva
in mente, lui che veniva considerato dagli avversari capo del “Soviet
del Corriere della Sera”.
Anche
in anni più recenti non sono mancati gli attacchi, contro l'ex
direttore De Bortoli, dimissionario due volte da direttore nel 2003,
il primo (per mano delle pressioni del secondo governo Berlusconi),
il secondo nel 2015 per le pressioni del governo Renzi dopo un
editoriale dove parlò dello stantio odore massonico nel suo governo.
La seconda parte
del libro è invece dedicato al presente del mondo del giornalismo.
Quali sono le forze in campo
che si scontrano, con obiettivi diversi: il difficile rapporto con la
pubblicità, l'informazione di confine,
cioè quella pubblicità che viene presentata dai giornali come se
fossero articoli comuni.
La
difficoltà nel tenere separata la newsroom dal marketing,
con quel muro (“the
wall”): Fiengo cita
diversi casi, come le pagine comprate dalle aziende dolciarie per
difendere l'uso dei coloranti negli alimenti, pagine presentate come
normali pagine normali.
Le
inserzioni pubblicitarie comprate da Tod's ai tempi di Luna Rossa
(sponsorizzata dal marchio Prada), che costrinse il giornale ad avere
due pagine dedicate alle regate, per poter consentire la presenza
delle inserzioni dei due marchi.
Quali i
fondamenti di un giornale?
La
carta, le rotative con cui si stampano le copie: un giornale che deve
stare al centro della comunità (le rotative del Washington Post sono
visibili dalla strada, ricorda l'autore).
L'importanza
nel salvare le radici del giornale, come la sede storica di via
Solferino che i giornalisti cercarono di salvare dalla speculazione
immobiliare (che ha portato alla vendita del palazzo al fondo
Blackstone). L'importanza dell'archivio del giornale, come patrimonio
del giornale e del paese.
E
la sincera diffidenza verso l'integrazione tra giornalismo e mercato:
mescolare alto e basso nella cultura, non avere paura ad aprirsi ai
conflitti, il revisionismo storico ..
Il giornalismo
che non c'è e il giornalismo (forse del futuro).
Alla
base di una buona parte dei problemi di questo paese c'è la
questione di un “giornalismo che non c'è”: ci sono i
giornalisti, ci sono i giornali, ma ancora manca la cultura del
giornalismi di informazione, libero e indipendente.
Fiengo
ricorda diversi episodi di questi anni: la mancanza in
Italia di un vero Freedom of Information act,
come esiste in America dai tempi di Lyndon Johnson nel 1966.
Mancanza
che è stata in parte superata grazie alla riforma Madia del governo
Renzi, nel 2016 (il Foia4Italy): una riforma che consente l'accesso
agli atti della pubblica amministrazione senza l'obbligo di una
motivazione. Pur con tutti i limiti della riforma, un mezzo miracolo.
La difficoltà
nel pubblicare la biografia dei membri della Camera,
in modo da raccontare ai futuri elettori chi fossero gli eletti
grazie alla legge “Porcellum”,
nel 2009.
Il
Parlamento degli inquisiti, dei nominati dalle segreterie, del voto
per “Ruby nipote di Mubarak”, delle leggi ad personam per
favorire l'allora Presidente del Consiglio e i suoi interessi.
Il
muro tra newsroom e marketing che si è voluto abbattere dentro Il
New York Times nel 2014, per contrastare la diminuzione della
pubblicità, e che è costato il posto a Jill Abramson che aveva
voluto che ogni pubblicazione sponsorizzata fosse indicata
chiaramente al lettore.
Il giornalismo
che diventa narrazione e non più sola informazione:
il caso Expo è l'ultimo degli esempi. Il giornalismo non era più
l'attività principale, nei mesi di Expo, dove 50 ml di euro sono
stati investiti dalla società (i cui conti ora sono stati ripianati
anche dall'intervento del governo): “si
è registrato uno scivolamento indubbio verso il prevalere
dell'evento, della fiera, sui contenuti di fondo”.
Il futuro del
giornalismo.
Il 2016 è stato l'anno della Brexit, dell'elezione di Donal Trump a
presidente degli Stati Uniti, della minaccia del terrorismo che ha
condizionato la politica dei paesi europei.
Dopo il crollo del muro di Berlino altrettanti muri si sono innalzati
in Europa contro i migranti.
Le destre xenofobe si sono risvegliate e i governi delle democrazie
devono tener conto, nelle loro scelte (coraggiose le parole della
cancelliera Merkel dopo l'attentato di Berlino).
L'anno delle post verità e del populismo: non è importante la
verità della notizia in sé, che le persone trovano sui social
sempre più spesso (in America si informa sui social network almeno
il 63% delle persone, in Europa siamo al 50%).
Come ci difenderemo dal populismo, dai partiti di estrema
destra, dai fascismi, dalle chiusure e dai muri?
Prendo spunto dalla recensione che trovate sul sito dell'Ordine
dei giornalisti, a cura di Antonio Andreini, che cita le ultime
righe del libro:
Raffaele Fiengo, porta a soccorso, nelle ultime due righe del libro, una metafora: "Il giornalismo deve arrivare, come l'acqua, all'ultimo campo di riso". Gli ho chiesto di spiegarmela. Mi ha dato un breve testo di programma che aveva mandato una volta a tutti i redattori di via Solferino: “Nei villaggi di montagna, a Bali, i contadini badano bene di affidare la gestione dei campi di riso al proprietario dell'ultimo campo a terrazza raggiunto dall'acqua. Questa organizzazione della comunità (il "Subak") funziona bene e assicura due raccolti l'anno per tutti. Ognuno è sicuro che sarà fatto davvero quel che serve (piccole chiuse, gallerie, rimozione dei detriti e del fango, acquedotti sotterranei e all'aperto, scolmatoi) perché l'acqua possa compiere l'intero percorso e toccare anche il suo campo, senza fermarsi ad irrigare solo i terreni dei potenti e degli amici dei potenti”. Una metafora forse buona per capovolgere la Brexit, Trump e anche l'angoscia per l'Italia. Con il giornalismo.
(Antonio Andreini)
Gli altri post sul libro di Raffaele
Fiengo “Il cuore del potere”
La scheda del libro sul sito di
Chiarelettere
e sul sito dell'Ordine
dei giornalisti
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