11 dicembre 2016

Il Corpo del reato di Carlo Bonini

L'incipit
Sabato 6 febbraio 2016. PomeriggioRoma. Viale ReginaPadiglione del pronto soccorso radiologico del Policlinico universitario Umberto I
Disteso su una lettiga in acciaio, il Corpo del ragazzo era al centro della stanza. Avvolto nel sudario di cotone bianco e garza in cui era stato composto e che ne lasciava scoperti solo l'ovale del volto e una barba incolta e nera.Ricordava un Cristo.Aveva viaggiato in una bara di legno chiaro laccato. Dal Cairo all'aeroporto di Fiumicino. E, di lì, su un carro della polizia mortuaria, all'istituto di medicina legale di Roma. [..] Incollato alla bene e meglio con dello scotch, un foglio A4 stampato con inchiostro nero indicava il nome dell'impresario funebre, e quello della salma.Giulio Regeni.Ventotto anni.

Il Corpo del reato è il corpo di Stefano Cucchi, il fantasma, lo scheletro, morto nell'ospedalePertini, dopo sette giorni di agonia il 22 ottobre 2009.
Il racconto di Carlo Bonini ci porta dentro le carte dei vari processi che si sono tenuti dopo la sua morte e che hanno cercato di stabilire chi fossero i responsabili della sua morte.
I carabinieri che lo hanno arrestato e che ora sono accusati del pestaggio, nella caserma di Casilina a Roma, che molto probabilmente ne ha poi causato la morte.
I medici e gli infermieri del Pertini, l'ospedale legato al carcere di Regina Coeli, dove è rimasto per giorni, prono sul letto, senza tutta quell'assistenza di cui avrebbe avuto bisogno.

Attraverso la storia di Stefano Cucchi (e di Giulio Regeni, le storie di questi due ragazzi sfortunati si incrociano all'inizio e alla fine), Carlo Bonini mostra il volto oscuro delle istituzioni, di uno Stato di diritto che non ha saputo proteggere una persona che erano sotto la sua tutela.
La morte di Stefano Cucchi diventa un sintomo di una malattia profonda delle istituzioni dunque, una storia che doveva essere raccontata:
Ci sono storie come quella di Stefano Cucchi che sanno raccontare assieme il destino di una persona e anche del destino di una collettività ..”


La storia di un'inchiesta che almeno all'inizio è stata incompleta, dei depistaggi e le manipolazioni degli uomini in divisa, della mancanza di umanità da parte del personale medico e degli infermieri che dovevano prendersi cura di Stefano. Delle perizie e controperizie che si sono scontrate.

Carlo Bonini fa parlare i personaggi attraverso le carte dei processi che si sono tenuti dal 2009 ad oggi, attraverso le testimonianze delle persone che a vario titolo sono venute in contatto con Stefano. E attraverso le perizie eseguite (in tempi diversi e con risultati diversi) sul suo corpo: nonostante depistaggi, gli errori, le dimenticanze, il corpo di Stefano ha parlato a chi ha voluto ascoltarlo.
Ha parlato ai genitori Rita e Giovanni e alla sorella Ilaria, che per sette giorni non hanno potuto incontrarlo (se non al processo per direttissima) e chi l'hanno rivisto solo da morto, nel giorno dell'autopsia.
Ma ha parlato anche al dottor Vittorio Fineschi, il medico che per conto della famiglia Cucchi ha stilato la relazione di parte civile. Dove si mette nero su bianco le percosse e le due fratture alle vertebre e la relazione causa effetto tra il pestaggio e la morte in ospedale: Stefano non era morto di fame e di sete, ma di brachicardia (il cuore era arrivato a battere 46 colpi al minuto), causato dal trauma lombo-sacrale, la testi della vescica neurologica.

Quel corpo ha parlato soprattutto all'avvocato Fabio Anselmo che, in sette anni, non si è mai rassegnato alla mancanza di una giustizia per Stefano.
Nonostante le altre relazioni che negavano la relazione causale tra percosse e morte, che raccontavano che Stefano era morto di fame.

Carlo Bonini racconta tutte le difficoltà affrontate da Ilaria e dall'avvocato Anselmo: i primi attriti con la procura, la sensazione di incompiutezza dell'indagine, la scelta di separare in due i reati, il pestaggio imputato alle guardie penitenziarie e la negligenza dei medici. La perizia dei pm che escludeva il nesso causale tra le percosse e la morte, le fratture non recenti, i medici imputati di abbandono colposo e che hanno cercato di sistemare i loro errori con le carte ..
Lei pubblico ministero il processo lo perderà ..” - le profetiche parole di uno dei difensori delle guardie del carcere.

La sentenza di primo grado mandò assolte le guardie, non ritenute responsabili del fatto (il pestaggio) e anche gli infermieri. I medici del Pertini furono invece condannati.
La sentenza di Appello, che arrivò nel giorno di Halloween, che manda tutti assolti:
Nella sua notte di Halloween, lo Stato si dimostrava capace di riconoscere a se stesso ciò che aveva ferocemente negato a una sua giovane vittima: la rigorosa applicazione delle garanzie processuali, l’habeas corpus, l'intangibilità fisica e psicologica di chi è accusato di un reato, la presunzione della sua innocenza.Quei princìpi trovavano applicazione nei confronti di agenti penitenziari, medici e infermieri del “reparto protetto” dell’ospedale Sandro Pertini.
Ma non erano valsi mai, neppure per un istante, per un ragazzo la cui unica colpa era stata quella di consegnare docilmente i propri polsi alle manette di chi lo aveva arrestato per piccolo spaccio.Sì. Si era fatto buio pesto.

Tutto finito, tutto chiuso? No, non per uno come Fabio Anselmo, che intuisce come nelle due perizie usate nei primi due processi, intuisce che la frattura alla vertebra L3 non è stata vista poiché hanno considerato solo metà vertebra (la metà sezionata dopo l'autopsia), mentre la perizia di Fineschi si era basata sulle radiografie fatte appena dopo la morte.
Con queste carte, con la consulenza del radiologo Masciocchi, il procuratore di Roma Musarò ha riaperto il faldone delle indagini:
... Da sei anni si discute e si è andati a sentenza girando intorno a una vertebra di cui è stata tagliata via la sola parte di interesse scientifico. Come è possibile?”
Ci ho pensato, dottor Musarò. Ma sinceramente non ho una risposta. Posso solo ribadirle che essendo la frattura di L3 la chiave di questa vicenda sarebbe stato necessario esaminare l’intera vertebra. Non una parte soltanto. E per giunta quella sbagliata.”[..]Il Corpo di Stefano aveva parlato un’ultima volta. Il Corpo di Stefano diceva la verità.

Sono arrivate anche le testimonianze di due carabinieri che avevano assistito all'ingresso nella loro caserma del maresciallo Mandolini (comandante della caserma di via Appia che aveva seguito l'arresto di Stefano): “era agitato e disse a Mastronardi del fatto di Cucchi. Disse che l'avevano massacrato di botte .. i carabinieri”.

In questa storia entrano in scena i militari dell'Arma: secondo il racconto di questi due testimoni che hanno deciso di rompere il muro d'omertà, nel corpo tutti sapevano e tutti se ne sono stati zitti:
Avvocato, le devo dire la verità. Non mi sarebbe mai venuto in mente di andare da un superiore e dire: ‘Guardate, è successo questo’… Anche perché secondo me tutti sapevano tutto. Quindi, mi dissi: ‘Perché deve spettare a me dire e indagare su una cosa che ho sentito solo come esclamazione?’.” “E quindi perché ora si è decisa a raccontare questa storia?”

Come mai l'inchiesta interna dell'Arma non aveva fatto emergere tutte le discrepanze e le stranezze della ricostruzione data dai militari che avevano proceduto all'arresto prima e avevano avuto in custodia Stefano nella prima notte? L'ipotesi di Bonini tira in ballo un altro caso, avvenuto pochi mesiprima:
Era un fatto la coincidenza temporale tra il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi e lo svelamento dell’estorsione di segno sessuale per mano di carabinieri che aveva fatto cadere l’allora governatore del Lazio, Piero Marrazzo”.

Il resto lo hanno fatto i tre carabinieri stessi, per cui la procura di Roma si è detta pronta a chiedere il processo, nelle intercettazioni cui sono stati sottoposti.
C'è n'è una, in particolare, che fa venire i brividi, tra Raffaele D'Alessandro e la ex moglie Anna
Era stato ancora una volta un sms di Anna ad innescare l'epilogo.Devi solo essere contento se i tuoi figli fanno delle cose e si divertono. Preoccupati di più se ti vedono perché ti arrestano”.D'Alessandro le aveva telefonato fuori di sé.Che volevi dire, eh? Perché mi dovrebbero arrestare, fammi capire? Ma che dici, eh?”E questa volta Anna aveva parlato chiaro.Non ti preoccupare, perché poco alla volta ci arriveranno. Perché quello che hai raccontato a me lo hai raccontato a tanta gente. Hai raccontato della perquisizione, Raffae’. Hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda!”

Perché era un “drogato di merda”: così si esprime un uomo dello stato, uno di quelli che doveva prendersi cura proprio di Stefano e che invece si divertiva, così raccontava alla moglie, a picchiarli, questi ultimi.
Un drogato di merda.Già il calvario di Stefano Cucchi, sei anni di menzogne, il balbettio confuso della scienza medica di fronte a un Corpo martoriato era in quell'aggettivo e predicato.
Drogato di merda.Dunque, ultimo degli ultimi. Dunque, privo di diritti. Dunque, non uguale di fronte alla legge degli uomini.
Un diverso. Un corpo a perdere. Uno di quelli di cui si dice, nel gergo di certi sbirri, che abbiano il nome all'anagrafe scritto a matita. Perché cancellarlo è un attimo. E nessuno verrà a reclamare.Non era la prima volta. Era già successo. Nel 2001, a Genova, nei giorni del G8. Nella caserma della polizia stradale di Bolzaneto. A Napoli, nella caserma Raniero. A Ferrara, a un ragazzo chiamato Federico Aldrovandi. A Varese, a un operaio che di nome faceva Giuseppe Uva.Drogati di merda. Comunisti e zecche di merda. Froci e lesbiche di merda. Immigrati di merda.

Giuseppe Uva, Cucchi, Bolzaneto: sono racconti che testimoniano la fragilità del nostro stato di diritto, e la violenza di cui è capace il “potere”, dell'incapacità dello stesso Stato di saper giudicare e fare giustizia.
Giustizia che a Stefano Cucchi (e a tutte le altre persone citate) è stata finora negata perché uno degli ultimi, perché un disperato, perché “drogato di merda”.

Il libro termina allacciando le due storie, quella di Stefano Cucchi e quella di Giulio Regeni, torturato e ucciso in Egitto, probabilmente da persone dei servizi egiziani, perché ritenuto un nemico del regime.
Una morte, scrive il giornalista, così diversa e così simile a quella di Stefano Cucchi.
Un caso ha voluto che ad occuparsi dei due morti sia stato lo stesso medico, il dottor Vittorio Fineschi: a lui, ancora una volta, il corpo martoriato ha parlato e gli ha raccontato tutto il calvario cui è stato sottoposto.
Come per Stefano, anche per Giulio stiamo aspettando giustizia. Non ci arrenderemo, come in questi anni non si sono arresi Ilaria, l'avvocato Anselmo, i genitori di Giulio Regeni e i tanti che hanno deciso che non si può mettere da parte il rispetto dei diritti civili in nessun caso, nemmeno per una ragione di stato (o per interessi commerciali con un paese dall'altra parte del Mediterraneo).
Sarebbe bastato che Stefano fosse portato in carcere e non in una caserma, quella notte. Che gli fosse consentito di parlare col suo avvocato. O un suo familiare. Come era suo diritto.
Ce lo chiede quel corpo, di pretendere una giustizia che ci dia ancora fiducia nello Stato.

Il Corpo del reato, di Carlo Bonini – Feltrinelli (qui potete sfogliare il primo capitolo)

I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon.

Nessun commento: