03 marzo 2020

Tutti a casa

Nelle settimane prima dell'arrivo (in senso mediatico) del coronavirus si è discusso, tra le altre cose, di Sanremo, della barbarie con cui si bloccava la prescrizione, della proposta di riforma costituzionale del "sindaco d'Italia".
Poi, nei primi giorni della settimana coi primi contagi (e purtroppo delle morti), di prove di strage, modello Wuhan.
Quando il sistema mediatico si è stancato di raccontare l'escalation degli infettati e ci è resi conto che per contenere il contagio si bloccavano gli affari a Milano e in Lombardia è partita l'operazione "basta panico".
Così mentre si invitavano i dipendenti a lavorare a casa, a non uscire se non in caso necessario, si è chiesto di riaprire Milano perché ci sono gli eventi, le prenotazioni, gli alberghi, i turisti (mica possiamo pensare solo al virus).
Con grande sprezzo del pericolo si è così iniziato a chiedere un rilassamento dei vincoli e dei protocolli (che non è che abbiano proprio funzionato benissimo).
Vietato chiudere, vietato parlar male dell'eccellenza lombarda-veneta.
Vietato chiedere al privato di sostenere lo sforzo che per la maggior parte grava sulla sanità pubblica che in questi anni ha subito tagli di personale di bilancio.

Ora scopriamo che a Roma un agente di polizia potrebbe essersi infettato, aveva i sintomi di una influenza pesante e invece era il virus e non gli è stato fatto il tampone. Un nuovo caso Codogno, ma questa volta a Roma.
Forse questi protocolli sono da rivedere.
Forse tutto questo ottimismo sul sistema che tiene va rivisto.
Perché i contagi aumentano e dire che i morti avevano sintomi pregressi ed erano anziani suona leggermente cinica.
Perché sentir parlare ancora di cantieri da aprire da molto fastidio, di questi tempi.

Cosa faremo quando medici e posti per i ricoveri inizieranno a scarseggiare?
Ci cureremo a casa? 

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