Apro il giornale e leggo le notizie: Veronica Lario risponde a Veltroni; Di Pietrocorteggia la Brambilla; TPS dopo i bamboccioni “le tasse non bellissime”.
Mastella che si preoccupa del neoterrorismo: quando volete nascondere problemi reali, trovatene altri, da additare al pubblico. Questo sta scritto nel manuale del politico italiano. Trovare un nemico esterno che compatti il fronte interno.
Perchè il neoterrorismo dovrebbe farci più paura di cosa nostra, 'ndrangheta (a che punto sono le indagini su Duisburg?) e Camorra?
Oppure è l'attacco dei movimenti di piazza, i vaffanculo al re nudo, che danno fastidio, e allora devono essere bollati come movimenti terroristici?
Non siamo più negli anni 70 e Grillo non è Toni Negri.
Ma torniamo alla questione dei magistrati: lo scontro tra palazzo di giustizia e quei magistrati che vorrebbero fare il loro dovere, come de Magistris. E che non possono andare in TV a rilasciare interviste (si tratta di Annozero).
Ieri ho commesso un errore, parlando del giudice Paolo Borsellino, indicato come esempio da seguire ai magistrati di oggi, dimenticandosi quanto la sua vicenda ricordi da vicino il caso De Magistris e di quanti si avvicinino troppo alle stanze del potere.
L'articolo “Noi ex professionisti dell'antimafia” era la risposta alla precedente di Sciascia “I professionisti dell'antimafia” del 1987, che accusava Borsellino e Orlando di aver fatto carriera grazie all'antimafia.
Ebbero modo di parlarsi i due, come ricorda Borsellino nell'intervista, Sciascia si riferiva a quanti, nella politica e nella magistratura, stessero salendo sul carro dei vincitori, per rifarsi una verginità o per fare carriera.
Come successe nel 1992 (allora tutti tutti erano antigarantisti e giustizialisti) dopo le stragi; dopo Tangentopoli (tutti contro i corrotti).
Ma l'articolo che fece scoppiare le polemiche è un altro, del 1988 “Lo stato si è arreso. Del pool antimafia sono rimaste macerie” uscito il 20 luglio 1988 su Repubblica.
Cosa era successo: per la successione di Caponnetto all'ufficio Istruzione di Palermo fu scelto (per motivi di anzianità, per l'appunto, cioè gli stessi motivi di cui parlava Sciascia) il consigliere Antonino Meli, al posto di Giovanni Falcone.
Una regia più o meno occulta, guidata da Vincenzo Geraci che, insieme a Vittorio Aliquò convinse Meli a rinunciare alla candidatura per la presidenza del tribunale e scegliere quella di consigliere istruttore.
Borsellino lanciava il grido d'allarme: le indagini del pool venivano “polverizzate”, ossia date in paste a tanti magistrati che non avevano la preparazione tecnica e l'esperienza per occuparsi di mafia.
Borsellino e Falcone (con Meli) furono convocati dal CSM in luglio, Falcone, scrisse una lettera chiedendo di essere trasferito.
Meli chiese provvedimenti contro Borsellino, sostenendo che il suo operato era teso a delegittimare l'operato del Palazzo di Giustizia. Meli accusa Borsellino di aver convocato i due cronisti (Lodato e Bolzoni, che finirono addirittura in carcere per aver pubblicato anticipazioni delle rivelazioni del pentito Calderone).
In Sicilia arriva il capo degli ispettori, Vincenzo Rovello, che in due poderosi fascicoli raccoglie testimonianze, articoli di stampa e relazioni. Alla fine conclude: Borsellino aveva ragione.
Ma Borsellino rimase lì dov'era, Falcone si trasferì al ministero di Grazia e Giustizia.
Ma questa è solo una prima parte della battaglia contro i magistrati: c'è anche il fronte dei giornali, in cui si distinsero i giornalisti de Il giornale di Sicilia e de Il giornale di Indro Montanelli.
"Scrissero sciocchezze, ai limiti dell'ilarità .. Un cronista del Giornale scriveva gli articolo direttamente nella stanza di Vincenzo Geraci , al CSM, nel Palazzo dei Marescialli.
Se ne accorse Fernanda Contri lamentandosene col vicepresidente del CSM, Cesare Mirabelli, noto per aver votato nei suoi quattro anni di permanenza nel suo incarico una sola volta, per eleggere se stesso e poi astenendosi per il resto. In quegli articoli c'era quindi un ispiratore di parte, fazioso .. pagine di grande squallore” conclude Giuseppe Ayala nel suo libro “La guerra dei giusti”.
Tra le accuse a Falcone, spicca l'articolo di Ombretta Carulli Fumagalli “Maccartismo a Palermo” del 19 novembre 1988, dove si accusa il giudice di difendere i comunisti, non arrestando i costruttori catanesi Costanzo.
Falcone, davanti al CSM, spiegò poi, le ragioni del suo operato.
Potete leggerle su “Falcone e Borsellino” di Giommaria Monti.
Davanti al CSM, il 30 luglio 1988, a Borsellino viene chiesto, da parte del consigliere Sergio Letizia “ritiene corretto o meglio producente ai fini della lotta alla mafia rendere pubblico questo fatto [l'intervista a Republbica] attraverso un convegno, attraverso interviste giornalistiche?”
Risponde Borsellino:
“.. non mi sembrerebbe corretto non dibattere di questa problemi, e dibatterne anche all'esterno della magistratura. Il problema della lotta o comunque delle indagini sulla criminalità mafiosa io lo sento profondamente, l'ho sentito, sono stato disposto a seguire sacrifici, non vedo perchè l'opinione pubblica non debba essere interessata di questo problema; anzi è pericoloso quando l'opinione pubblica non viene interessata a questo problema; è grave con riferimento alle indagini sulla criminalità mafiosa che l'opinione pubblica se ne disinteressi o le sopporti così, come se si trattasse di assistere ad una lotta tra giudici e mafiosi, né tra poliziotti e mafiosi, ma è un problema che riguarda tutti”.
La mafia è un problema di tutti, dei ragazzi che difendono de Magistris ("trasferiteci tutti"), della gente che si era riunita a Catanzaro. E' un problema della democrazia del nostro stato.
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