Uno studio del Fai ha messo nero su bianco come la disastrosa lezione del Vajont non sia stata bene appresa.
Dal 1960, l'urbanizzazione del territorio è aumentata del +146%.
A fronte di un aumento della popolazione del 17%.
Il 10% della superficie italiana – circa 30mila chilometri quadrati – è a rischio idro-geologico: ultimi esempi in ordine di tempo sono le tragedie avvenute alle Cinque Terre, a Scaletta Zanclea, a Soverato.
Significa fiumi canalizzati, dove lo spazio per l'esondazione naturale è stato loro sottratto per costruire case e centri commerciali (o il Salaria sport village).
Significa campagne che all'improvviso diventano strisce di asfalto per le tante autostrade che solcano il nord.
O campi che diventano capannoni per attività industrali, oggi tra l'altro in crisi.
Non abbiamo imparato niente dal quel 9 ottobre 1963, da quelle 2000 vittime, molte delle quali bambini. Vittime di una tragedia annunciata in cui si è scelto di non rispettare la natura, l'uomo, in nome del profitto.
Quel profitto che la Sade, uno stato nello stato la definì Alessandro Da Borso, presidente democristiano della Provincia, mandato a Roma dal consiglio provinciale a protestare presso il ministro e ritornato con le pive nel sacco.
La Sade era il padrone veneziano. E allora tutti zitti: i geologi della provincia, i politici a Roma, i giornali e i giornalisti.
Ma non Tina Merlin, la testarda giornalista de l'Unità che, prima della frana del Toc scrisse che sulla diga incombeva una frana che minacciava i paesi sulla cresta opposta al Toc, Erto e Casso. E forse anche Longarone.
La Merlin fu mandata a processo, a Milano, per "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico", dopo la denuncia dei carabinieri: fu assolta solo perché nel frattempo c'era già stata la prima frana.
Quella del 1960.
La tragedia del Vajont è anche questo: lo Stato che non tutela più gli interessi generali, di tutti, ma solo quelli del potente.
Un sistema che considerava i contadini di Erto e Casso pedine sacrificabile, di fronte agli enormi guadagni e soprattutto di fronte agli investimenti (in parte pagati dallo stesso stato italiano per gli assegni a fondo perduto) della Sade.
I giornalisti delle testate moderate che attaccavano quanti si permettevano, a tragedia avvenuta, di chiedere conto delle responsabilità.
"Un sasso è caduto in un bicchiere, l'acqua è uscita dal bordo, ed è finita sulla tovaglia.
Tutto qua. [..] E non è che si sia rotto il bicchiere; non si può dar della bestia a chi ha costruito il bicchiere perchè il bicchiere era fatto bene, a regola d'arte, testimonianza della tenacia e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro".
Questo scriveva pochi giorni dopo la tragedia del Vajont, avvenuta il 9 ottobre 1963, Dino Buzzati sul suo giornale Il Corriere della Sera.
Un capolavoro, in nome del progresso.
Quel progresso e quella industria che non poteva essere fermata.
Così come oggi non possiamo permettere che nessuna tocchi la produzione dell'Ilva di Taranto, per rendere sicuro l'ambiente.
Così come non possiamo permettere che le grandi opere siano messe in discussione. Le nuove autostrade, i TAV, i nuovi porti, gli aeroporti da espandere ..
Può franare il paese, ma il progresso non si arresta.
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