Il Fatto quotidiano di oggi pubblica una anticipazione del libro uscito per Paper First, "Giustizialisti",di Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo
La scena è quella di una faticosa riunione notturna. In una sala maestosa e piena di legni scolpiti, le scomode e solenni poltrone di pelle sono schierate su file contrapposte per ospitare le rappresentanze dei diversi Paesi. È solo una delle tante interminabili riunioni che si svolgono nel ministero della Giustizia di via Arenula. Da una parte la delegazione italiana e dall’altra quella rumena discutono delle modalità di trasferimento in patria dei detenuti che sono stati condannati per reati commessi nel nostro Paese. La Romania – tra le nazioni con le quali l’Italia è costretta a negoziare il problema della criminalità d’importazione – è uno dei Paesi più seri, abituato a rispettare i propri impegni. Ma i problemi sono tanti. Le convenzioni internazionali prevedono che ci debba essere il consenso dei diretti interessati al trasferimento. E i detenuti, naturalmente, preferiscono rimanere nelle carceri italiane, che evidentemente sono ritenute molto più comode. La nostra delegazione è stanca. Qualcuno inizia a fumare avvicinandosi a una finestra. Con altri Paesi in via di sviluppo erano stati fatti accordi e pianificati piani di rientro, l’Italia si era impegnata a fornire auto blindate e a favorire –anche con aiuti economici –la costruzione di carceri e ditribunali, sperando di avere in cambio il rimpatrio dei detenuti; ma non aveva ottenuto comunque niente. Alla Romania, tutto sommato, non avevamo promesso nulla, ma anche se loro sembravano disponibili a riprendersi i concittadini, i problemi rimanevano tanti e insormontabili. A un certo punto, complice la stanchezza e l’ora tarda, a un rappresentante italiano viene fuori dalla bocca una battuta infelice: “La verità è che in Romania avete troppi criminali”. Nella sala improvvisamente il silenzio. Il capo delegazione rumeno, che era rimasto tutto il tempo in ascolto, sollevò lentamente lo sguardo verso il suo interlocutore e mantenendo alte le sopracciglia disse la sua. “Non abbiamo molti criminali, o comunque non molti di più rispetto a quanti ne abbiate voi. Solo che i nostri preferiscono venire a delinquere nel vostro Paese, perché in Romania chi sbaglia paga: le leggi sono molto severe e le carceri parecchio dure. E non siamo soliti concedere a gratis sconti di pena ai criminali”. Quelle parole rimbombarono come colpi di cannone nella sala e servirono a riportare alla realtà. Il nostro Paese cercava di porre rimedio a una situazione che in qualchemodo –sia pure involontario –aveva generato. Nei modelli statali chiusi, con sistemi autarchici e frontiere impermeabili, ogni Stato può scegliere indifferentemente di adottare il sistema penale che vuole. Il numero dei reati sarà certamente collegato alla capacità di dissuasione che quel sistema riuscirà a imporre rispetto ai suoi cittadini, o a quanti si trovino nel territorio dello Stato in cui vige una certa legge penale. Ma, come si èdetto, nei sistemi a frontiere aperte le leggi, se vogliono continuare ad avere lo scopo di dissuadere dal commettere reati, devono tenere conto di un’altra variabile delle regole penali vigenti negli altri Paesi che rispetto all’Italia sono in regime di libera circolazione. E se è presente anche una massiccia immigrazione clandestina, non sipossono neppure trascurare le regole e i sistemi penali dei Paesi dadove arrivano i clandestini. Perché altrimenti gli Stati con sistemi penali deboli finiscono per importare criminalità. Il mercato della criminalità –nelle cui leggi di domanda e offerta incide molto il rischio di punizione penale –è da sempre orientato dalla dimensione territoriale. I criminali, potendosi spostare su territori diversi, scelgono il luogo dove è più conveniente delinquere. Negli anni 80, quando ancora esistevano le frontiere, vi fu una ingente migrazione interna di criminali sul territorio nazionale. Una delle possibili mete era rappresentata dal Nord Italia, dove vi erano territori più ricchi da aggredire, anche se vi era il rischio collaterale di condanne più pesanti, perché i reati in quei territori, determinavano un più elevato allarme sociale. I criminali, specie quando operano all’interno di compagini organizzate, calcolano tutto. A volte vengono programmati delitti laddove statisticamente è più basso il rischio di essere arrestati, ovvero in caso di arresto si registrino condanne a pene meno severe. Alla luce di queste valutazioni, negli anni Settanta, a Torino e Milano, si formarono importanti colonie di catanesi e di calabresi che operavanonel settore del traffico della droga e della prostituzione. Nello stesso periodo, sul territorio della Provincia di Siracusa –ove erano meno presenti comandi di polizia e si registravano condanne a pene mediamente più basse rispetto a quelle riportate in altri circondari –si notava una ingente presenza di rapinatori provenienti da altre province siciliane. Questo esempio solo per dire che all’interno di confini nei quali è consentita una certa mobilità, la criminalità si sposta tenendo conto dei rischi che si corrono.A seguito dell’apertura delle frontiere, e con la formazione di compagini mafiose di respiro internazionale, questo fenomeno si è ulteriormente strutturato. Al di là dei flussi migratori spontanei e interni, si è manifestata una presenza massiccia di gruppi criminali provenienti da Paesi neoaderenti all’Unione europea o addirittura a composizione mista transazionale. Possiamo senz’altro dire che tali realtà criminali non solo sono sensibili alla facilità di migrazione, ma hanno addirittura, in certi casi, tratto origine dal modello di organizzazione a frontiere aperte, scegliendo in quale luogo operare: quello dove il rapporto tra ricchezza da aggredire e rischio penale appariva concretamente più favorevole. Ecosì – per fare un esempio che ci riporta all’aneddoto da cui siamo partiti– se per una rapina in abitazione in Romania rischi 30 anni di duro carcere, in Italia puoi cavartela con quattro che, al netto della liberazione anticipata e della possibilità di ottenere l’affidamento in prova, si riducono né più né meno che a qualche dozzina di mesi. Il tutto in un istituto in cui viene garantito il trattamento dei nuovi giunti e qualche opportunità di lavoro e di svago previsti dalla nostra organizzazione penitenziaria.In queste condizioni, perché mai i criminali stranieri dovrebbero organizzare rapine in patria, dove c’è molta meno ricchezza da aggredire e un ben più alto rischio di finire davanti a una giustizia inflessibile e rigorosa? E dunque aveva ragione l’esponente della delegazione rumena: non sono loro a produrre criminali, siamo noi che li importiamo da tutti i Paesi in cui vigono normative penali più rigorose. Dietro i fenomeni di criminalità d’importazione vi è perciò una importante responsabilità politica, consistita quanto meno nella sottovalutazione delle differenze dei sistemi penali e nella correlativa incapacità di prevedere e prevenire i fenomeni criminali collegati all’immigrazione.
Qui anticipiamo parte del quarto capitolo di “Giustizialisti”, in edicola col Fatto Quotidiano