Il 9 ottobre del 1963, dal Monte Toc si stacca una frana di 260 ml di metri cubi di roccia che, cascando nel lago dietro alla diga del Vajont, solleva un'onda di 50 ml di metri cubi d'acqua e fango.Solo la metà scavalca di là della diga, solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua... Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti.
Iniziava così il racconto di Marco
Paolini
sul teatro naturale della diga del Vajont: l'apocalisse umana che
causò 2000 vittime (di cui mille corpi mai recuperati) in un
olocausto consumato in 4 minuti.
Ci eravamo dimenticati della tragedia
del Vajont, era stata relegata in quelle vergogne italiane, nascosta
dietro una verità ufficiale di comodo, portata avanti dai governi e
dai maggiori quotidiani di informazione.
“Più niente da dire o da fare ..
nessuno ha colpa .. una sciagura pulita .. tutto fatto dalla natura”
Giorgio
Bocca 11 ottobre 1963
“Un sasso è caduto in un
bicchiere ..” Dino
Buzzati sul Corriere, 11 ottobre 1963.
“Sciacalli” scriveva
Montanelli, sempre sul Corriere, nei confronti di quanti indicavano
nei costruttori della diga, i responsabili della tragedia.
Finché, il 9 ottobre 1997, Paolini non
raccontò in prima serata la storia della diga del Vajont e anche la
storia della guerra contro questa diga, portata avanti dagli abitanti
della valle del Vajont, Erto e Casso contro la Sade. Teatro civile, disse, ma anche un nodo al
fazzoletto, per non dimenticare un'altra volta.
Perché la storia di questa diga, che
inizia negli anni '30, è molto istruttiva per raccontare i mali di
questo paese. Dove si piangono morti e tragedie dopo che succedono.
Dove non si ascolta mai la voce delle Cassandre che annunciano queste
disgrazie, portando dati oggettivi.
Dove l'interesse pubblico (la salute
delle persone, la possibilità di vivere senza l'incubo che una
montagna ti cada addosso) spesso arriva dopo l'interesse privato del
potente di turno (la Sade veneziana, che era uno stato nello
stato, parole del deputato DC Da Borso) capace di manovrare e
comandare amministratori locali, quotidiani e giornalisti (che
eccetto l'Unità con Tina
Merlin, non raccontarono mai cosa succedeva in valle),
perfino le forze dell'ordine (che pure dovrebbe garantire la
sicurezza dei cittadini e non solo la sicurezza della diga)..
La storia della diga del Vajont (si
legga in proposito “Sulla
pelle vita” della Merlin) racconta di
finanziamenti pubblici a fondo perso per pagare un'opera privata,
grazie ad una legge del governo Mussolini (dove il conte Volpi era
pure ministro) prima e ai governi DC poi, con sempre il conte Volpi
ora antifascista.
Racconta di espropri fatti senza
guardare troppo per il sottile, perché di mezzo c'era il progresso,
le grandi opere ingegneristiche che avrebbero fatto grande l'Italia e
che non potevano essere bloccate da quattro contadini ignoranti. O da
una giornalista comunista che venne pure denunciata per aver parlato
della frana che incombeva sui paesi in valle.
E che venne assolta quando la frana
cadde, non quella del 1963, ma la frana di tre anni prima, nel 1960:
a volerli vedere, i segnali premonitori della tragedia c'erano tutti.
La storia racconta che degli allegri
controlli del pubblico con “l'allegra commissione di collaudo”
come la chiamò Paolini, più interessati a fare una scampagnata che
non a controllare come venissero usato i fondi pubblici.
Racconta dell'incoscienza del privato
che costruiva in concessione dello Stato: la Sade era consapevole dei
rischi per le indagini fatte dal dottor Leopold Muller, dal
figlio stesso del dottor Semenza, l'ingegnere della diga. Sapeva dei
rischi nel portar l'acqua oltre la soglia dei 700 metri per gli studi
fatti dal professro Ghetti dell'università di Padova, studi
rimasti poi in un cassetto.
Tutti in valle sapevano della frana,
perché tutti sentivano le scosse, i boati, vedevano la terra
muoversi, vedevano quella trincea in cima al TOC, che delineava il
fronte della frana.
Lo vedevano gli abitanti di Erto, il
sindaco, i carabinieri che venivano rassicurati dalla prefettura e
dal Genio civile.
Anche i tecnici della Enel Sade
sapevano di quanto stava succedendo sul TOC: dopo la
nazionalizzazione delle idroelettriche, la diga del Vajont era stata
comprata dall'Enel come impianto funzionante.
Per poterlo vendere al miglior prezzo
serviva quella prova di invaso, a quota 715 metri, sopra la soglia di
sicurezza stabilita dalle simulazioni del prof. Ghetti.
Il profitto e i guadagni prima di
tutto.
Così in quei giorni tra settembre e
ottobre tutti sapevano ma nessuno ha fatto nulla: solo la natura ha
proseguito il suo corso, ma diversamente da quanto scrisse poi Bocca,
non era vero che non c'era nessun colpevole. Colpevoli erano quanti
non hanno rispettato la natura, hanno messo il profitto e il guadagno
davanti la sicurezza e l'incolumità delle persone.
Ogni anno che passa ci dobbiamo
ricordare di cosa è stato il Vajont: una valle spazzata, le 2000
vittime, per un'onda acqua e fango che fu come il fallout di due
bombe nucleari di Hiroshima.
Perché il nostro è rimasto un paese
fragile, oggi come allora. Frane, alluvioni, terremoti. E incendi
estivi che spazzano via i boschi e gli alberi che, con le radici,
tengono ferma la terra delle montagne.
Perché ancora come oggi la cultura
ambientale in questo paese non esiste: rimaniamo il paese dei
condoni e delle lacrime tardive. Tanto bravi ad accorrere sul luogo
delle sciagure per scavare tra le macerie, tanto incoscienti nel
costruire male, nel cementificare fiumi, nell'inquinare l'aria e le
falde.
E ogni volta si sente ripetere la
stessa storia. Sciacalli. Non si specula sulla morte.
E ogni volta si ricomincia da capo. Coi
condoni, con le grandi opere (TAV,Mose, ponte sullo Stretto..), con
promesse sempre disattese.
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