«Io non ho tradito, io mi sento tradito» sono le parole di un ragazzo, appena trentenne, che decide di abbandonarsi al suicidio denunciando una condizione di precarietà, un sentimento di estrema frustrazione. Non è l’urlo di chi si ferma al primo ostacolo, di chi capricciosamente non vede riconosciuta la propria ‘specialità’. È l’urlo di chi è rimasto solo. Di precariato si muore.Tutto questo ha a che fare con le trasformazioni della nostra società, a partire dai diritti universali, dal lavoro, dall’umanità e dalla solidarietà negate. Quelle cose che si è deciso di escludere dalle nostre vite, non potendogli dare un prezzo. C’è più di una generazione a cui avevano detto che sarebbe bastato il merito e l’impegno per essere felici. Quella di chi si è affacciato al mondo del lavoro cresciuto a pane e ipocrite promesse, e quella di chi si affaccia oggi, quando la promessa assume il volto di un’ipocrisia manifesta. Oggi ci si suicida perché derubati di possibilità, di diritti, di una vita libera e dignitosa. Qualcosa è andato storto e c’è chi continua a soffiare sul fuoco delle responsabilità individuali, delle frustrazioni che la solitudine sociale produce.Di precariato si muore. E non è un caso. Il precariato è la risposta feroce contro la classe lavoratrice, il tentativo più riuscito di distruzione di una comunità che aveva in sé un connotato, quello di classe, che si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli interessi di chi ogni mattina si sveglia e coltiva il culto dell’insaziabilità, dell’avidità che si fa potere. Il potere di sfruttare, di dileggiare tutti quelli che contribuiscono a creare le fortune dei pochi che se le accaparrano.Di precariato si muore quando al concetto di società si antepone quello di individuo.
L'Italia è una repubblica fondata
sul lavoro – così recita il primo articolo della Costituzione,
ancora in vigore nonostante i vari (e malriusciti) tentativi di
riforma. Nel 2011 il centro destra
berlusconiano aveva anche pensato di modificarlo quell'articolo,
aggiungendo anche un altro pezzo in cui si ribadiva “.. la
centralità del parlamento nel sistema istituzionale della
Repubblica”.
Era chiaramente un pretesto, dubito che
ci ha proposto quella modifica abbia capito cosa intendessero i padri
costituenti con la formula “centralità del lavoro”.
Tanto è vero che tutte le volte in cui
il centro destra ha cercato di modificare le leggi sul lavoro
l'obiettivo era sempre lo stesso: eliminare i diritti che i
lavoratori hanno conquistato nel corso di anni; disintermediare i
rapporti tra datore di lavoro (le imprese) e i dipendenti; rendere
quest'ultimi sempre più ricattabili, livellando verso il basso
salari, ore di lavoro, competenze non riconosciute, mortificazioni,
pena il licenziamento.
L'obiettivo, leggendo le pagine del
saggio di Marta Fana è stato finalmente raggiunto, grazie anche ai
governo tecnici della larghe intese (leggi Monti e riforma Fornero) e
ai governi targati PD.
Ma cosa è diventato oggi il lavoro,
in Italia? La risposta a questa domanda è complessa poiché è
esso stesso complesso, articolato, il mondo del lavoro, subordinato o
da free lance (partite iva, liberi professionisti, finti o veri),
nelle sue mille articolazioni contrattuali, per il fatto che in
Italia le imprese siano piccole e sfuggenti alle categorizzazioni.
È complesso anche perché spesso si
parla di lavoro guardandone solo alcuni aspetti: su Facebook l'ex
presidente del Consiglio Renzi
aveva celebrato i successi della sua riforma del lavoro
vantandosi del milione di posti creati, dal 2014 (un deja vu del
Berlusconi
e del suo contratto con gli italiani).
Dati ISTAT: +918MILA posti lavoro da feb 2014 (inizio #millegiorni) a oggi. Il milione di posti di lavoro lo fa il #JobAct, adesso #avantiMatteo Renzi (@matteorenzi) 31 agosto 2017
Due anni fa, in piena sbornia
riformista (pre referendaria), era stato il ministro Poletti a
tirar fuori i numeri (che gli interessavano) per
glorificare il jobs act: numeri smentiti da
Marta Fana, che
aveva corretto i dati su attivazioni e cessazioni nei primi mesi del
2015 e raffreddando l'entusiasmo dei tifosi del jobs act: come
hanno dimostrato i dati del 2016, la crescita delle nuove attivazioni
di contratti era legata agli sgravi alle imprese, 20 miliardi di
soldi pubblici spostati dalla fiscalità generale verso le imprese.
Si fa in fretta a gonfiare i numeri,
specie se non ti interessa creare vera occupazione, stabile,
qualificata.
In questa settimana sono usciti altri
dati sul lavoro: giovedì 19 ottobre Repubblica
titola “Lavoro, nel 2017 quasi un milione di assunti in più, ma
cresce il turnover”.
Se uno si fermasse al titolo non
capirebbe quello che poi, leggendo bene l'articolo spiega: crescono i
contratti, ma sono contratti a termine.
Vi ricordate quando Renzi
ci diceva che la sua riforma vole togliere di mezzo le mille forme di
precariato, verso il nuovo contratto “a tutele crescenti” (che
però non avendo l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori rimane di
fatto un contratto a termine)?
“Noi siamo preoccupati non di Margaret Thatcher, siamo preoccupati di Marta, 28 anni, che non ha la possibilità di avere il diritto alla maternità. Lei sta aspettando un bambino ma, a differenza delle sue amiche, che sono dipendenti pubbliche, non ha nessuna garanzia, perché in questi anni si è fatto cittadini di serie A e di serie B”.
Marta la precaria può stare
tranquilla, lei e tutte le altre assunte (o fintamente assunte)
con contratti ad un anno, a sei mesi. Lei e tutte le persone pagate
coi voucher (ora rinominati PrestO, si cambia il nome per non
cambiare niente), coi rimborsi spese. Lei e tutte le persone cui non
è riconosciuta la maternità, le ferie, gli straordinari.
Lei e tutte le persone che oggi, in
questa Repubblica che rimane ancora sulla carta una Repubblica
fondata sul lavoro (ma la cui attuazione rimane sulla carta), nemmeno
sono pagate per un lavoro.
Perché la deriva al ribasso, nel mondo
del lavoro, sta portando anche a questo: dopo i co.co.pro., i jobs on
call, le persone chiamate (o licenziate) via whatsapp, anche questo
abbiamo dovuto vedere. La glorificazione del lavoro gratis.
Cos'è il lavoro oggi?
La risposta a questa domanda la da
Marta Fana nel suo libro “Non è lavoro, è sfruttamento”
che è anche un'indicazione sullo stato di salute del nostro paese,
della nostra società: parafrasando un celebre titolo de l'Espresso,
lavoro corrotto, nazione malata.
Il libro racconta di quel mondo che in
pochi raccontano, nonostante sia sotto gli occhi di tutti, perché
cozza contro la narrazione favolistica che dice che le aziende per
essere competitive devono essere flessibili, dunque flessibili devono
essere solo i suoi dipendenti.
Come la storia dei riders di foodora,
pagati a cottimo, che svolgono mansioni routinarie, sempre le stesse,
sostituibili in qualsiasi momento. Quello che oggi è spacciato per
modernità (i lavoretti creati grazie agli smartphone e alla rete) è
in realtà – ci dice la ricercatrice – un ritorno al taylorismo:
“benvenuti nella gig economy, l’economia del lavoretto”,
ovvero “un’organizzazione del lavoro funzionale alla
massimizzazione dei profitti attraverso la riduzione delle
retribuzioni e dei diritti e l’intensificarsi dei turni di lavoro.”
Come i volontari di Expo, splendida
occasione per fare esperienza, a gratis ovviamente.
Come il pizzaiolo Mario pagato 500 euro
al mese, 240 glieli danno in voucher, il resto in nero; la cassiera
“a chiamata” che lavorava nei fine settimana ad un supermercato
senza potersi sedere o mettesi a bere. I lavoratori della logistica,
assunti in cooperative fittizie create ad hoc per strappare appalti
vinti al ribasso. Dove la competitività si basa solo
sull'abbassamento dei salati. Come il ventitreenne saldatore pagato
coi voucher che un giorno ha perso tre dita e che per questo ha perso
il lavoro, senza nemmeno il fastidio di doverlo licenziare.
I dipendenti della FCA di Melfi e
Pomigliano, che hanno votato il finto referendum sul contratto di
lavoro, in deroga a quelli nazionali, per poter mantenere il posto.
Altrimenti Marchionne non avrebbe portato in Italia i 10 miliardi di
investimento.
Come gli studenti dell'alternanza
scuola lavoro che imparano che a scuola non si si studia, per
arricchire il proprio bagaglio culturale, ma ci si deve subito
mettere a profitto per le imprese. Dunque anche pulire i cessi fa
bene.
Nel paese che meno investe in
istruzione (il 4,2% del Pil nel 2013 contro una media europea del
5,3%), anziché passare più ore a scuola, si sottraggono ore
all'insegnamento per pulire i giardinetti degli ospedali.
Un mondo del lavoro in cui il
profitto viene prima di tutto: prima dei principi della
Costituzione, sicuramente. In questa nuova concezione del lavoro si
perde di vista la progressività nella tassazione, il salario minimo
per avere una vita dignitosa, i servizi minimi e i diritti per tutti.
Scuola, salute, sicurezza.
Ci stiamo trasformando in un paese dove
vige un merito finto: chi è figlio di operai sempre con meno
facilità potrà accedere a studi superiori, migliorare la propria
esistenza. Perché mentre con una mano lo Stato sposta soldi per
sgravi alle imprese per le assunzioni, per pagare la formazione
(visto che le imprese non hanno soldi per farlo), per fare
investimenti, sempre lo Stato con un'altra mano taglia soldi alla
sanità, al welfare, alle borse di studio per accedere agli studi
superiori.
Il racconto di Marta Fana è una
carrellata di enormi ingiustizie, a cominciare dal furto di un futuro
per i ragazzi di almeno due generazioni, costretti a dover rinunciare
a qualsiasi progetto per un futuro, come fare una famiglia, sapendo
che un giorno, forse, avranno una pensione da fame.
Un furto che non è capitato per caso,
che non è colpa degli immigrati che ci rubano il lavoro, che non è
colpa della crisi o dei padri che hanno vissuto al di sopra dei
propri mezzi.
È un furto a cui si è arrivati per
precise scelte politiche: scelte politiche in nome di una visione
ideologica del lavoro e della democrazia.
Meno diritti per tutti, più profitti
per pochi, meno stato (che ha solo il compito di avallare le scelte
di altri), meno servizi per la collettività: questo spiega i 20
miliardi spostati dal pubblico alle aziende private per assumere
persone, non necessariamente per creare nuovi posti di lavoro.
La precarizzazione oltre ad essere un
fattore di instabilità economica – fette sempre più ampie della
popolazione stanno sprofondando nella povertà, ma anche lo strumento
in cui si allontana una fetta di paese dalla partecipazione allo
sviluppo economico del paese.
Ma non erano crollate le ideologie?
A quanto pare, a quanto racconta Marta Fana, sono vive e lottano
contro di noi, portate avanti da una minoranza del paese.
Quella che non può nascondere i soldi
nei paradisi fiscali.
Quella che non può evadere, che
subisce la tassazione alla fonte.
Quella costretta a vivere col ricatto
del posto di lavoro.
Quella costretta a chiedere come fosse
un'elemosina qualcosa che invece è un diritto.
Uno stipendio, gli straordinari pagati,
le malattie e magari pure le ferie, perché no.
E invece niente: ci raccontano che è
colpa del debito, che è colpa dell'Euro, che ce lo chiede l'Europa,
che dobbiamo essere flessibili e dunque dobbiamo abbassare diritti e
salari. Metterci in concorrenza coi paesi dell'est o del terzo mondo.
Ci raccontano che dobbiamo attrarre
capitali stranieri, con le riforme strombazzate da giornali e
politici. Gli stessi stranieri che poi portano via brevetti e
produzione. Che delocalizzano e che poi, come Almaviva,
vincono pure degli appalti con aziende dello Stato.
Sono tutte balle.
Quello che insegna questo libro è che se vogliamo uscire da questa
deriva al ribasso, se non vogliamo diventare veramente “i
camerieri d'Europa” (l'accusa
che l'autrice rivolge al ministro del lavoro per le imprese,
Poletti), il primo passo è consapevoli del mondo in cui
viviamo.
Consapevoli delle
bugie dietro i tormentoni su competitività, dietro la guerra tra
poveri che tende a distogliere l'attenzione dalle vere cause dello
sfruttamento (non sono gli immigrati che ci rubano il lavoro, ma chi
fa dumping). Prendere coscienza che dobbiamo riprenderci i nostri
diritti sul lavoro, perché non sono una gentile concessione del
principe, ma qualcosa che ci spetta.
Capitoli del libro
Miserie e splendori del lavoro: un
immaginario da ricostruire
Dal lavoro a chiamata ai voucher,
andata e ritorno
La chiamavano modernità (è il
cottimo)
Logistica
Precarietà e sfruttamento nei servizi
pubblici
Lavoro gratuito
Il merito dell’alternanza
scuola-lavoro
Abbiamo fatto il possibile... per le
imprese
Fedeli alla linea: flessibilità!
La flessibilità è di destra
Conclusioni
Appendice
Caro Poletti, avete fatto di noi i
camerieri d’Europa
alcune recensioni
La scheda del libro sul sito
dell'editore Laterza
(indice),
qui il
programma completo degli incontri con l’autrice, in costante
aggiornamento.
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