Non so se sia leggenda o una storia vera, quello che raccontò Joseph Kennedy a proposito della crisi del 29: un giorno un lustrascarpe gli consigliò dei titoli buoni per la borsa. "Se il mio lustrascarpe ne sa più di me, c'è qualcosa che non va nel mondo della finanza" - la conclusione del senatore.
Possiamo portare lo stesso ragionamento oggi: se a parlare di corruzione e corrotti sono persone come Lavia o la giornalista sportiva D'Amico (un maschio e una femmina, per non essere tacciato di maschilismo), usando pure argomentazioni vecchie di anni, un problema ce l'abbiamo.
Meglio un corrotto che uno stato rotto cosa vuol dire? Che c'è una dose minima di corruzione (e di soldi pubblici rubati, di non meritocrazia) che è lecito consentire?
“Mi dispiace essere realista: sopportare qualche corrotto è meglio che avere lo Stato rotto. Io non sono più purista come un tempo”.
Che direbbe Lavia o D'Amico se un giorno dovesse perdere il posto per un nominato, un amico di?
La corruzione non è un'opinione qualsiasi, ma qualcosa che blocca lo stato, ne mina la credibilità, un fardello sui conti e sulla crescita del paese.
Altro che repubblica giudiziaria: i debiti e le inefficienze di oggi le paghiamo tutti, perfino i giornalisti del Foglio che da anni portano avanti la campagna contro i magistrati che si permettono di indagare i colletti bianchi e i politici.
E che si accontentano del simbolo dell'Europa sulla bandiera del PD. O di Forza Italia.
Una questione tremendamente seria per lasciarla a commentatori qualsiasi.
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