30 aprile 2019

Pio La Torre, la mafia, la politica del gattopardo


Nato nel 1927 in una frazione miserabile di Palermo, Altabello di Baida, La Torre è stato mandato a lavorare nei campi fin da bambino, ha diviso la sua stanza con una folla di fratelli e una capra, ha conosciuto la luce elettrica solo da ragazzo e la scuola solo per le insistenze di sua madre.Dal 1945 è iscritto al Partito Comunista, organizzatore di braccianti, detenuto al carcere dell'Ucciardone per diciassette mesi per occupazione di terre, consigliere comunale a Palermo, deputato nazionale, membro della Commissione antimafia, segretario regionale del PCI siciliano. Sa che cosa è la mafia, perché la vede da quanto è bambino, conosce a memoria i nomi di sindacalisti e attivisti ammazzati. Non è un banchiere, ma sa come circolano i soldi e conosce tutti gli appalti che hanno cementificato la città di Palermo. Non è un sociologo, ma sa quanto si guadagna con la droga e la strada che prendono i soldi, verso Milano e verso New York. Non è un politologo, ma è rimasto allibito quando quando è stato stabilito che nella città di Comiso, in provincia di Ragusa, verrà costruita una grande base americana, dotata di missili nucleari per contrastare quelli dell'Unione Sovietica. Ha spiegato al suo partito che sarà la mafia a gestirlo, ma quando parla di queste cose nelle riunioni di Botteghe Oscure non sente il calore della lotta e dell'impegno; e anche a Palermo nel suo partito lo giudicano un uomo all'antica, un romantico. E anche un po' un disturbatore.Nel 1980 ha presentato una proposta di legge tanto semplice quanto rivoluzionaria: la mafia va considerata «associazione a delinquere» e i beni dei mafiosi vanno confiscati. Tutto il testo non è più lungo dii una paginetta, ma non ha trovato nessuno nel partito che mettesse la firma accanto alla sua.Gli unici che gli sono stati vicini sono stati un giornalista, Alfonso Madeo, e due giovani sostituti procuratori di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La sua legge è finita nel cassetto. Allora ha scritto una lettera al presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, in cui gli ha spiegato come stanno le cose – in breve: l'Italia sta per essere divorata dalla mafia – e Spadolini lo ha cortesemente ricevuto e ha ascoltato stupito; ha garantito che farà avanzare l'iter della sua proposta di legge. Poi Pio La Torre è tornato a Palermo e ha organizzato una manifestazione da centomila persone a Comiso – la più estrema delle periferie – in cui, il 4 aprile, hanno sfilato comunisti, pacifisti, monaci buddisti, ragazze inglesi molto determinate. Ovvero la solita schiuma della terra che si oppone al corso della Storia.Da Patria, di Enrico Deaglio

Il 30 aprile 1982 la mafia uccideva Pio La Torre assieme al suo autista, Rosario di Salvo: la sua colpa (agli occhi della mafia gravissima) era quella di aver portato avanti una proposta di legge rivoluzionaria.
Essere mafiosi era reato e, per quel reato, lo Stato poteva confiscarti tutti i beni.
Sembra una cosa semplice, ma questa legge rimase nel cassetto per mesi e ci volle l'indignazione per un altro cadavere eccellente, il prefetto Dalla Chiesa, affinché il PCI e il governo la ritirasse fuori.
Conosceva la mafia avendola vista da vicino, Pio La Torre, ma era anche un uomo solitario nella sua battaglia: nemmeno nel suo partito quella lotta a viso aperto contro la mafia si voleva portare avanti.
Significava mettersi contro un pezzo dello Stato, il mondo delle banche e della finanza (attraverso cui passavano i miliardi dei mafiosi), dei costruttori (che usavano l'arma del ricatto del lavoro) e anche mettersi contro un pezzo vasto di politica.
La legge Rognoni La Torre, il 416 bis, è stata una rivoluzione come anche una rivoluzione la stagione antimafia seguita alle stragi di Falcone e Borsellino.
Ma una rivoluzione serve a poco se non c'è vera discontinuità politica (e anche nelle imprese e nella finanza) tra un prima e un dopo: si dice che la Sicilia sia un laboratorio politico dove sperimentare nuove alleanze. Qui si è preparato il 61 a zero di Forza Italia nel 2001, qui i partiti sono in mano ai soliti capibastone, che si rivendono al miglior offerente.
Fino a pochi anni fa era il PD ad essere chiamato “partito acchiappavoti” per la campagna acquisti di ex lombardiani, cuffariani e altro.
Oggi tocca al nuovo che arriva (e che sa già di vecchio): quel Salvini che fa il pienone nelle piazze della Sicilia sperando di prendere il posto di Berlusconi.
Ieri sera Report ci ha raccontato del sistema Montante, della sua ragnatela di spioni, magistrati, giornalisti, con cui consolidava il suo potere e portava avanti la sua finta immagine di paladino dell'antimafia.
Combattere la mafia costa fatica, costa sacrifici, significa rischiare la pelle, anche l'isolamento da parte della politica ignava che preferisce non vedere.
Finché la lotta alla mafia sarà fatta solo da chiacchiere e chiacchieroni, avremmo purtroppo ancora bisogno di eroi come Pio La Torre (che pure ci sono, penso all'ex presidente del parco dei Nebrodi, Antoci).

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