30 giugno 2010

Il partito dei padroni di Filippo Astone

Il partito dei padroni. Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia.

Più di cinquanta anni fa, Ernesto rossi scriveva sul Mondo:

"Io non me la sono mai presa con gli industriali perché guadagnavano facendo il loro mestiere. Me la prendo con gli industriali che, finanziando i giornali, le campagne elettorali, i partiti, ricattando il governo con la minaccia dei licenziamenti, mantenendo uomini di loro fiducia nei gangli più vitali dei ministeri economici [..] riescono a continuare nel comodo sistema della privatizzazione dei profitti e della nazionalizzazione delle perdite".

Il partito dei padroni pag 352

Queste parole, alla chiusura del libro inchiesta di Filippo Astone, sono state scritte quando ancora l'Italia andava in giro in 500, governava la Democrazia Cristiana, il muro di Berlino era ancora in piedi ..
Eppure a rileggerle sembra che siano state scritte oggi.
Forse perchè mentre il mondo è cambiato, parte del paese è cambiato, la classe imprenditoriale, la classe dirigente, ancora in parte incarna quei vizi di cui Ernesto Rossi parla. Specie se prendiamo le grande aziende italiane, quelle a partecipazione statale, di cui ne aveva già parlato Gianni Dragoni e Giorgio Meletti nel libro "La paga dei padroni".
Patti di sindacato, catene lunghe, laute stock option decide dai vertici aziendali slegate dall'andamento dell'impresa, manager che vengono scelti per la loro fedeltà e non per le loro capacità.
Insomma, mentre si sente sempre più spesso ripetere che i lavoratori italiani devono essere flessibili, rinunciare a qualche diritto (l'odiato articolo 18, ma anche il diritto allo sciopero, ad uno stipendio dignitoso a prescindere, alla salute etc etc), mettersi in gioco col mondo globalizzato, si scopre poi, leggendo le cronache , che poi le nostre aziende sono le prime a non voler fare impresa, intesa come rischiare il proprio per inseguire un sogno, un progetto.

L'inchiesta di Astone allora, è importante per conoscere meglio cosa è Confindustria, come è strutturata (in ambito nazionale e in ambito locale), quali sono le sue proposte e quali di queste sono state sposate dalla politica, in particolar modo dall'attuale maggioranza di governo.

Si scopre così che è una struttura elefantiaca, con regolamenti molto complessi specie per la nomina dei presidenti (non conta il meccanismo una testa un voto, ma la capacità di fare rete, di essere cooptato): l'autore la paragona al "partito comunista cinese", pieno di tanti piccoli e grandi "mandarini" (leggetevi il capitolo "la mappa del potere in Confindustria").

Predica contro la politica politicante, ma è il più vecchio e il più influente partito italiano, 142.000 iscritti che danno lavoro a 4,9 milioni di persone, ramificato come nessun altro sul territorio. Predica contro la burocrazia, ma si avvale di un apparato faraonico di 4.000 dipendenti, paragonabile per dimensioni soltanto a quello che consente al ministero degli Esteri di operare nei cinque continenti. Predica contro gli sprechi, ma preleva ogni anno dalle tasche dei propri associati qualcosa come 506 milioni di euro, poco meno di 1.000 miliardi di lire, per tenere in piedi una sede romana, 18 strutture regionali, 102 provinciali, 21 federazioni di settore e 258 organizzazioni associate. Predica contro la casta, ma è un organismo piramidale, dominato dal nepotismo, che procede dal padre e dal figlio come lo Spirito Santo nel Credo. [dall'articolo su Il giornale]

Il programma dei padroni.
Altro capitolo importante, è quello dove si affronta il modello di lavoro, di Welfare, di impresa (media e piccola) che Confindustria ha in mente: questo è oggi estremamente importante, poichè stiamo assistendo ad una alleanza capitale-lavoro che l'autore fa risalire agli anni '20, '30, all'epoca del consenso mussoliniano. Da una parte persone che ritengono che il lavoro sia solo un costo (e il lavoro dunque una merce come le altre), dall'altra ministri e politici che fanno da sponda a queste richieste per consolidare il proprio consenso nei salotti buoni (dove sempre più spesso si decidono le sorti del paese).

I quattro punti fondamentali di questo programma sono così definiti: «Privatizzare qualunque cosa tranne (per ora) l'aria; abbassare drasticamente le imposte e pertanto la spesa pubblica; riformare radicalmente la contrattazione e il diritto al lavoro per ottenere la massima flessibilità e minori costi; adoperarsi per attuare le riforme indispensabili a un paese moderno» cioè burocrazia più efficiente, infrastrutture, incentivi a ricerca e sviluppo. Questo programma non cambia mai e le richieste ai governi di turno sono sempre le stesse. E, se guardiamo agli ultimi venti anni, ci accorgiamo che questo programma è stato pazientemente applicato con certosina precisione (anche se questo non basta ancora al "partito dei padroni") sia dai governi Berlusconi che da quelli del centrosinistra. [fonte Micromega]

E' un modello contro i giovani e il lavoro: un modello che tenderà ad aumentare sempre più la precarietà e, di riflesso, ad impoverire tutto il paese.
Meno stipendi, meno controbuti; meno contributi meno tasse (e meno tasse anche se aumenta l'evasione, l'utilizzo di paradisi fiscali e fondi neri, pratica in cui i "padroni" fanno spesso ricorso), meno risorse per i beni pubblici.

In questa inchiesta c'è spazio anche per aspetti positivi del mondo imprenditoriale: come gli industriali che in Sicilia hanno detto no alla mafia, perchè han capito che così si rubavano risorse da investire nelle imprese.
Mi riferisco a Ivan Lo Bello, Antonello Montante, Marco Venturi e Giuseppe Catanzaro, che hanno portato avanti una rivoluzione copernicana (la cacciata da Confindustria delle imprese che pagano il pizzo), che non è solo una questione di facciata.
Questa è una delle belle novità introdotte dalla gestione Marcegaglia: non è molto positivo il ritratto che Astone ne fa nel libro. Una scommessa mancata: anche per la crisi, era il momento di portare nelle imprese italiane quella ventata di novità e riforme che ci si aspettava.
«Nei primi due anni della sua presidenza Emma Marcegaglia avrebbe potuto lavorare per una stagione di grandi riforme. In direzione di un new deal di vera concorrenza, autentico e sano liberismo, nuove regole che dessero una boccata d’ossigeno alle piccole e medie imprese e ai loro dipendenti, un mercato del lavoro più equo. In altre parole: il combustibile necessario per far ripartire un’Italia in declino economico e industriale, e mostrare qualche segno di speranza alle generazioni future», scrive il giornalista.
Che amaramente conclude: «Ma non lo ha fatto. Ha preferito ritagliarsi un ruolo da tranquillo amministratore di un condominio che dovrebbe essere ristrutturato completamente. Ma che per ora, a suo dire, può tirare avanti così, con un lavoretto qua e un puntello là»

Non solo si è preferito navigare a vista, ma si è anche fatto gioco di sponda col governo, specie nel caso Alitalia, un brutto esempio contrario alle logiche di mercato (tanto invocate quando si parla degli stipendi degli altri), di liberalizzazione, in pieno conflitto di interessi (aziende concessionarie dello stato, che entravano nella cordata per aver poi favori dal governo), dove il pubblico pagherà per anni i debiti pregressi di Alitalia.
Un capitolo è dedicato alle Piccole Medie imprese, nel loro conflitto contro le grandi: le pmi riunite attorno a Confapi (rivale della medesima struttura dentro Confindustria), che hanno necessità e priorità diverse dalle seconde.

Il libro termina con due capitoli : il primo dedicato a Luca Cordero di Montezemolo. Cosa ha in testa Montezemolo? Cosa vuol realizzare con la sua findazione Italia futura?

Dove vuol arrivare Montezemolo?
«Vuol fare politica, ma la farà solo da vincente. Per ora ha messo sul tavolo da gioco una fiche, che è la Fondazione Italia Futura. Certo fa sorridere leggere quello che ha scritto sul suo sito: “Siamo una nazione che troppo spesso tende a cedere alla leggenda consolatoria secondo cui tutti rubano alla stessa maniera. Non è così e lo sappiamo bene”. Sta parlando un manager che fu cacciato dalla Fiat perché accettava denaro ogni volta che presentava il finanziere Gianfranco Maiocco a uno dei grandi capi del gruppo torinese e che davanti al giudice Gian Giacomo Sandrelli si giustificò dicendo: “Ero giovane e ingenuo”».
Ma per fare politica serve un partito.
«Montezemolo può contare su un parterre di amici che vanno da Diego Della Valle a Luigi Abete. Intanto traffica col Grande centro. Non dimentichiamo che quando stava in Confindustria i suoi interlocutori erano Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e Francesco Rutelli. Abete è vicinissimo a Rutelli. Caso da manuale, quello dei fratelli Abete, due dei 2.000 imprenditori che vivono a tempo pieno in Confindustria. Con una tipografia che fattura appena 80 milioni di euro, dagli anni Settanta riescono a controllare l’Unione degli industriali di Roma. Si trasmettono le cariche di generazione in generazione. C’era Mariano Rumor presidente del Consiglio quando comandava il loro padre, Antonio». [l'intervista a Il giornale]

L'ultimo, da leggere con la dovuta calma, è una lunga carrellata sugli episodi da "casta": la casta di lorsignori si intitola.
C'è ne per tutti: da Tronchetti Provera, alla famiglia Ligresti, al caso Fastweb di Silvio Scaglia (come far pagare agli azionisti e al pubblico e arricchire il privato). Un brutto episodio con risvolti penali, che illumina il lato oscuro del capitalismo italiano.

«All'inizio ci siamo chiesti se, e in quale misura, i protagonisti del capitalismo nostrano abbiano corresponsabilità nella deriva italiana. A partire da una domanda: ma Marco Tronchetti Provera, Emma Marcegaglia, Luca Cordero di Montezemolo sono poi così diversi da Antonio Bassolino, Rossa Russo Jervolino e Mara Carfagna? Alla fine del viaggio la risposta è no». Le similitudini posso essere ampliate ma la sostanza è quella: una classe dirigente dedita a bacchettare tutto e tutti, a dispensare consigli all'universo mondo, si è arricchita grazie a quello Stato che vuole abbattere e grazie a sacrifici enormi di lavoratori e lavoratrici. Eppure è ancora lì, intoccabile, impunita che si erge a grande moralizzatrice, foraggiata e sostenuta dal cuore dell'ideologia berlusconiana che vuole l'imprenditoria come modello sociale di riferimento contro la politica parassitaria. Un modello che ha plasmato la società italiana e che costituisce oggi forse il vero lascito degli ultimi venti anni. [l'articolo dedicato al libro su Micromega]

Il link per ordinare il libro su ibs.
Technorati:

Nessun commento: