Più trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di via D'Amelio.
Inizia
con queste parole l'articolo del PG di Palermo, Roberto
Scarpinato, in ricordo del 27 esimo anniversario della strage in
cui furono ucciso Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la sua
scorta a Capaci, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani.
Una sensazione di disagio nel sentirsi
ripetere, anno dopo anno, la verità di comodo sulla morte dei due
magistrati, diventati in questi anni simboli della lotta alla mafia.
Sono stati ammazzati per la vendetta
della mafia, per il loro lavoro svolto durante il maxi processo.
E' stata la mafia.
La mafia che ha deciso di uccidere
Giovanni
Falcone a Capaci in quell'attentato così imponente, così
drammaticamente spettacolare, anziché a Roma, dove era tutto più
facile.
La mafia ha deciso di uccidere
Paolo Borsellino dopo solo 55 giorni, davanti casa della madre,
sfidando quasi lo Stato (che non aveva saputo proteggere Borsellino,
che non si era sottratto ai pericoli che sapeva di correre).
La mafia ha deciso di mettere
le bombe in Italia, colpendo obiettivi di valore
storico-culturale, a Firenze, a Roma, a Milano.
Le due stragi vendetta di mafia, ma poi
il boss mafioso che le ha organizzate, Totò Riina la belva, è stato
catturato e dunque lo stato ha vinto.
No, tutto troppo semplice, tutto troppo
facile.
Prima perché questa ricostruzione si
dimentica del fatto che quelle bombe, quegli attentati hanno ancora
troppi punti da chiarire, che la versione ufficiale non spiega o non
vuole spiegare.
Perché i depistaggi di Stato
(fatti da uomini dello stato) per inventarsi la pista Scarantino?
Chi ha indirizzato Riina verso quegli
obiettivi?
Perché gli attentati furono
rivendicati da quella strana sigla, Falange Armata, che portava
dritta dritta a Gladio,
ai servizi deviati, agli scheletri dell'armadio della prima
repubblica?
C'è poi la sentenza (di primo grado al
momento) sulla trattativa stato mafia, che ora è difficile definire
presunta come è stata chiamata per anni dai garantisti italiani, che
sono quelli poi gli stessi della verità di comodo sulla mafia.
Come se la mafia di Riina fosse la
mafia di oggi. Chi conosce la storia della mafia, e c'è ne sono
tanti di storici della mafia come Saverio
Lodato, sa che Riina è stata una eccezione nella storia
della mafia: il volto della mafia non è quello del contadino di
Corleone, il viddano che con un golpe interno a Cosa Nostra
fece fuori le famiglie palermitane storiche, che si erano arricchite
negli anni '70 col traffico di droga e prima ancora con la
speculazione edilizia.
No, la mafia è sempre stato un potere
criminale spietato, capace di cercare rapporti con uomini politici e
rappresentanti dello Stato di tutti i colori.
Senza la connivenza dello stato, dei
politici che alla mafia cercano voti, cercano supporto, la mafia non
sarebbe stato molto di più di un gruppo criminale come gli altri.
Le stesse inchieste di Falcone e del
suo pool avevano fatto emergere i rapporti tra i boss e la massoneria
(poi non portati al maxi processo perché si rischiava che non
avrebbero retto il giudizio dei giudici). Dei rapporti tra cosa
nostra e i vertici politici dalla Sicilia fino a Roma.
Non dimentichiamoci mai, che gli stessi
garantisti di cui sopra, i negazionisti della trattativa,
quelli che ripetono la solfa della mafia sconfitta dallo stato buono,
si dimenticano che in questo paese abbiamo avuto un sette volte
Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, condannato per
mafia (per i suoi rapporti coi mafiosi fino al 1980). Condanna poi
prescritta.
Per non parlare delle condanne a Vito
Ciancimino, all'ex dirigente dei servizi Bruno Contrada (sentenza poi
ribaltata dalla Corte Europea, perché il reato non era ben
formulato).
A tanto era arrivato in alto il potere
della mafia: la mafia che era entrata nel sacco di Palermo, nel
traffico di droga dall'Asia per andare poi in America, la mafia che
poteva tranquillamente far passare i suoi beni nelle casse delle
banche siciliane, perché pecunia non olet.
Nemmeno se la banca è una banca del
Vaticano, lo IOR di Marcinkus, di Sindona prima e di Calvi poi.
Oggi la mafia, passata questa giornata
della retorica e dell'imbarazzo, non se ne parla più.
Si sventolano arresti, sequestri,
un'antimafia di facciata che si dimentica del vero potere di Cosa
nostra.
Certo, alcune riforme sono state fatte
ultimamente, sui reati contro la pubblica amministrazione, per
cambiare il reato di 416 ter, sul rapporto tra mafiosi e politici.
Ma ..
La storia di Antonello Montante
(raccontata recentemente da un servizio di Report
e dal bel libro di Attilio
Bolzoni) è significativa in tal senso: usare l'antimafia come
specchio per le allodole per costruire una rete di potere, di
ricatti, di dossier, per piazzare amici nelle poltrone che contano.
E mentre si elencano questi arresti,
questi sequestri, gli stessi volti, gli stessi nomi, si ripresentano
ad ogni elezione, portando il loro pacchetto di voti in dono a quel
partito o a quell'altro.
Per capire chi fosse Arata e in quali
rapporti fosse con Vito Nicastri (considerato dai pm di Palermo la
testa di legno di Messina Denaro) sarebbe bastato fare qualche visura
catastale.
Ma forse il signor ministro era troppo
preso coi sequestri …
Mafia, imprenditoria, politica collusa
e complice.
Questi i legami da sciogliere.
Falcone e Borsellino sono stati uccisi
non solo per una vendetta della mafia: forse ostacolavano il disegno
di riappacificazione tra una parte dello Stato con quella cosa nostra
con cui erano sempre andati d'accordo, fin dai tempi della strage di
Portella della Ginestra e della morte del bandito Salvatore Giuliano.
Serviva spazzare via i Riina e i
Bagarella.
Serviva trovare nuovi equilibri
politici.
Perché tutto cambiasse per non
cambiare nulla.
Oggi si parlerà solo del sacrificio e
dell'eroismo di Falcone (e di Borsellino), che eroi non volevano
diventarlo, volevano solo fare il loro lavoro, liberare lo Stato dai
ricatti, far respirare alle persone il “fresco profumo di
libertà”.
Dimenticandosi che, da vivi, Falcone e
Borsellino (come altre vittime della mafia), sono stati denigrati,
attaccati, infangati, derisi.
Ma perché non si spostano fuori
Palermo, così le sirene delle loro scorte la smettono di dar
fastidio alla brava gente?
Perché non la smettono di indagare
nelle banche e nell'imprenditoria siciliana? Sono i soliti giudici
comunisti che vogliono attaccare la DC..
Ecco, questo non ve lo diranno i
signori della retorica dell'antimafia, i padrini dell'antimafia.
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