23 maggio 2019

Giovanni Falcone, la retorica di Stato, il disagio delle celebrazioni




Più trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di via D'Amelio.

Inizia con queste parole l'articolo del PG di Palermo, Roberto Scarpinato, in ricordo del 27 esimo anniversario della strage in cui furono ucciso Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la sua scorta a Capaci, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani.
Una sensazione di disagio nel sentirsi ripetere, anno dopo anno, la verità di comodo sulla morte dei due magistrati, diventati in questi anni simboli della lotta alla mafia.
Sono stati ammazzati per la vendetta della mafia, per il loro lavoro svolto durante il maxi processo.

E' stata la mafia.
La mafia che ha deciso di uccidere Giovanni Falcone a Capaci in quell'attentato così imponente, così drammaticamente spettacolare, anziché a Roma, dove era tutto più facile.
La mafia ha deciso di uccidere Paolo Borsellino dopo solo 55 giorni, davanti casa della madre, sfidando quasi lo Stato (che non aveva saputo proteggere Borsellino, che non si era sottratto ai pericoli che sapeva di correre).
La mafia ha deciso di mettere le bombe in Italia, colpendo obiettivi di valore storico-culturale, a Firenze, a Roma, a Milano.

Le due stragi vendetta di mafia, ma poi il boss mafioso che le ha organizzate, Totò Riina la belva, è stato catturato e dunque lo stato ha vinto.

No, tutto troppo semplice, tutto troppo facile.
Prima perché questa ricostruzione si dimentica del fatto che quelle bombe, quegli attentati hanno ancora troppi punti da chiarire, che la versione ufficiale non spiega o non vuole spiegare.
Perché i depistaggi di Stato (fatti da uomini dello stato) per inventarsi la pista Scarantino?
Chi ha indirizzato Riina verso quegli obiettivi?
Perché gli attentati furono rivendicati da quella strana sigla, Falange Armata, che portava dritta dritta a Gladio, ai servizi deviati, agli scheletri dell'armadio della prima repubblica?
C'è poi la sentenza (di primo grado al momento) sulla trattativa stato mafia, che ora è difficile definire presunta come è stata chiamata per anni dai garantisti italiani, che sono quelli poi gli stessi della verità di comodo sulla mafia.

Come se la mafia di Riina fosse la mafia di oggi. Chi conosce la storia della mafia, e c'è ne sono tanti di storici della mafia come Saverio Lodato, sa che Riina è stata una eccezione nella storia della mafia: il volto della mafia non è quello del contadino di Corleone, il viddano che con un golpe interno a Cosa Nostra fece fuori le famiglie palermitane storiche, che si erano arricchite negli anni '70 col traffico di droga e prima ancora con la speculazione edilizia.

No, la mafia è sempre stato un potere criminale spietato, capace di cercare rapporti con uomini politici e rappresentanti dello Stato di tutti i colori.
Senza la connivenza dello stato, dei politici che alla mafia cercano voti, cercano supporto, la mafia non sarebbe stato molto di più di un gruppo criminale come gli altri.

Le stesse inchieste di Falcone e del suo pool avevano fatto emergere i rapporti tra i boss e la massoneria (poi non portati al maxi processo perché si rischiava che non avrebbero retto il giudizio dei giudici). Dei rapporti tra cosa nostra e i vertici politici dalla Sicilia fino a Roma.
Non dimentichiamoci mai, che gli stessi garantisti di cui sopra, i negazionisti della trattativa, quelli che ripetono la solfa della mafia sconfitta dallo stato buono, si dimenticano che in questo paese abbiamo avuto un sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, condannato per mafia (per i suoi rapporti coi mafiosi fino al 1980). Condanna poi prescritta.
Per non parlare delle condanne a Vito Ciancimino, all'ex dirigente dei servizi Bruno Contrada (sentenza poi ribaltata dalla Corte Europea, perché il reato non era ben formulato).

A tanto era arrivato in alto il potere della mafia: la mafia che era entrata nel sacco di Palermo, nel traffico di droga dall'Asia per andare poi in America, la mafia che poteva tranquillamente far passare i suoi beni nelle casse delle banche siciliane, perché pecunia non olet.
Nemmeno se la banca è una banca del Vaticano, lo IOR di Marcinkus, di Sindona prima e di Calvi poi.

Oggi la mafia, passata questa giornata della retorica e dell'imbarazzo, non se ne parla più.
Si sventolano arresti, sequestri, un'antimafia di facciata che si dimentica del vero potere di Cosa nostra.
Certo, alcune riforme sono state fatte ultimamente, sui reati contro la pubblica amministrazione, per cambiare il reato di 416 ter, sul rapporto tra mafiosi e politici.
Ma ..

La storia di Antonello Montante (raccontata recentemente da un servizio di Report e dal bel libro di Attilio Bolzoni) è significativa in tal senso: usare l'antimafia come specchio per le allodole per costruire una rete di potere, di ricatti, di dossier, per piazzare amici nelle poltrone che contano.

E mentre si elencano questi arresti, questi sequestri, gli stessi volti, gli stessi nomi, si ripresentano ad ogni elezione, portando il loro pacchetto di voti in dono a quel partito o a quell'altro.
Per capire chi fosse Arata e in quali rapporti fosse con Vito Nicastri (considerato dai pm di Palermo la testa di legno di Messina Denaro) sarebbe bastato fare qualche visura catastale.
Ma forse il signor ministro era troppo preso coi sequestri …

Mafia, imprenditoria, politica collusa e complice.
Questi i legami da sciogliere.

Falcone e Borsellino sono stati uccisi non solo per una vendetta della mafia: forse ostacolavano il disegno di riappacificazione tra una parte dello Stato con quella cosa nostra con cui erano sempre andati d'accordo, fin dai tempi della strage di Portella della Ginestra e della morte del bandito Salvatore Giuliano.
Serviva spazzare via i Riina e i Bagarella.
Serviva trovare nuovi equilibri politici.
Perché tutto cambiasse per non cambiare nulla.

Oggi si parlerà solo del sacrificio e dell'eroismo di Falcone (e di Borsellino), che eroi non volevano diventarlo, volevano solo fare il loro lavoro, liberare lo Stato dai ricatti, far respirare alle persone il “fresco profumo di libertà”.
Dimenticandosi che, da vivi, Falcone e Borsellino (come altre vittime della mafia), sono stati denigrati, attaccati, infangati, derisi.
Ma perché non si spostano fuori Palermo, così le sirene delle loro scorte la smettono di dar fastidio alla brava gente?
Perché non la smettono di indagare nelle banche e nell'imprenditoria siciliana? Sono i soliti giudici comunisti che vogliono attaccare la DC..

Ecco, questo non ve lo diranno i signori della retorica dell'antimafia, i padrini dell'antimafia.

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